Atti di autolesionismo, crisi di ansia ed episodi depressivi che sfociano talvolta in suicidi: come si fa a trattare i disturbi mentali quando la persona è in carcere, priva di libertà? Ne abbiamo parlato con il professor Massimo Clerici, docente di Psichiatria dell'Università di Milano-Bicocca e Direttore del Dipartimento di Salute Mentale della Fondazione IRCCS San Gerardo dei Tintori che ci ha raccontato come, da oltre 10 anni, siano stati attivati interventi sanitari mirati per affrontare in modo più efficace le problematiche psicopatologiche e psichiatriche della popolazione detenuta.
Tra questi interventi, vanno citati un sistema di sorveglianza epidemiologico-clinica attraverso l’osservazione dei detenuti appena arrivati in carcere (“nuovi giunti”); una valutazione costante delle situazioni di rischio e programmi mirati per ridurle; uno screening quanto più precoce dei disturbi mentali rilevati. «L’obiettivo primario è quello di una maggiore tutela della salute mentale anche nelle carceri – spiega Clerici –. Lo si raggiunge attraverso attività cliniche e diagnostico-terapeutiche a favore di una popolazione che rivela bisogni di assistenza estremamente cresciuti negli ultimi anni. Basti pensare alla presenza di disturbi psicotici e dell’umore che oscillano da 2 a 4 volte quelli della popolazione generale, con un elevato tasso di rischio suicidario e autolesivo».
In occasione del decennale del Polo penitenziario dell’Università di Milano-Bicocca, il professor Clerici ha avuto modo di intervenire e spiegare come la presenza – nel carcere di Monza presso il quale lavora – di psichiatri della Fondazione IRCCS San Gerardo dei Tintori e di specializzandi e studenti dell’Università di Milano-Bicocca abbia permesso di sviluppare e pubblicare, a livello internazionale, studi pionieristici, per la realtà italiana, in diversi ambiti del sistema detentivo. E di ottenere, inoltre, una riduzione delle disparità di trattamento tra cittadini “liberi”, cui vengono messe a disposizione terapie aggiornate ed efficaci, e cittadini privi della libertà che, per la loro collocazione in un regime separato e ristretto, spesso non possono usufruire delle opportunità terapeutiche oggi a disposizione nei Servizi di Salute Mentale del territorio.
Quali sono i principali disturbi psichiatrici di cui soffrono i detenuti?
Bisogna fare dei distinguo: ci sono infatti, sostanzialmente, tre tipologie di detenuti. Quelli che, dopo l’arresto, manifestano disagio legato alle difficoltà di adattamento alla vita carceraria, alla lontananza dalla famiglia e dai figli. Queste persone possono soffrire di disturbi d’ansia e dell’umore, soprattutto depressivi.
Ci sono poi detenuti che hanno già una storia psichiatrica precedente al loro arrivo in carcere: si tratta di persone la cui situazione clinica spesso è già nota e che hanno una patologia pregressa. Nel loro caso, le condizioni carcerarie possono provocare un peggioramento della condizione di partenza e un aumento del rischio suicidario, soprattutto se non monitorati e se non si mettono in campo interventi validi: parliamo di una terapia farmacologica o di un supporto psicologico, ma anche della valutazione di un possibile trasferimento nelle cosiddette REMS (Residenze per l'esecuzione delle misure di sicurezza). Si tratta di strutture all’interno delle quali persone con una diagnosi accertata e un reato possono accedere a programmi di cura e di riabilitazione. Le REMS oggi sono però insufficienti a coprire il fabbisogno e, a volte, l’alternativa diventa l’affidamento esterno ai servizi psicosociali con tutti i rischi del caso. Basta ricordare la tragica vicenda di Barbara Capovani, responsabile della Psichiatria territoriale del Santa Chiara di Pisa, uccisa da un suo paziente.
Infine, ci sono i soggetti più gravi, spesso autori di omicidi o anche efferati pluriomicidi (i cosiddetti psicopatici o serial killer). Si tratta di soggetti pericolosi che in Italia sono spesso collocati in isolamento e spesso non accedono a percorsi di cura continuativi e terapie cognitivo-comportamentale, che potrebbero aumentare le capacità di autocontrollo in questi soggetti e migliorare una condizione psichica di base spesso molto precaria che può portare a recidive di reato.
Di che cosa soffrono dunque i detenuti?
Nel 60 per cento dei casi si riscontrano disturbi della personalità, di cui la metà di natura antisociale. Pensate che il 4 per cento della popolazione carceraria soffre di un disturbo psicotico - in genere dello spettro schizofrenico - che prevederebbe il trasferimento nelle REMS e di cui soffre solo l’1 per cento della popolazione). La percentuale delle persone che soffrono di disturbi depressivi e d’ansia in carcere è 2-3 volte quella di cui soffre la popolazione generale.
Ad acuire i disturbi mentali in una situazione di detenzione sono le sostanze stupefacenti, il più forte mediatore dei comportamenti violenti: metà della popolazione detenuta assume soprattutto cocaina anche se è difficile avere una fotografia chiara del fenomeno. Spesso, infatti, la dichiarazione dell’uso di sostanze stupefacenti - e la sua certificazione medica - viene usata per ottenere benefici come una diminuzione della pena o l’invio a una comunità terapeutica.
Come avviene il lavoro degli psichiatri in carcere?
In base alla legislazione esistente in Italia, da un po' di anni l’assistenza sanitaria alla popolazione detenuta è di competenza del Servizio sanitario nazionale e dei Servizi sanitari regionali. In Lombardia sono stati realizzatiti reparti di osservazione psichiatrica che si occupano della salute mentale dei detenuti. In particolare, al San Gerardo (dove lavoro dal 2007), è attivo un progetto regionale che ha permesso la realizzazione di un servizio di psichiatria penitenziaria che prende in carico e segue i detenuti con continuità terapeutica, condizione fondamentale per la cura. La letteratura scientifica a disposizione ci informa, infatti, che chi viene curato in modo continuativo presenta un minor tasso di recidiva psicopatologica e di ricaduta anche per quanto riguarda i reati. Presso la casa circondariale di Monza dove siamo attivi eseguiamo circa 1.000 interventi l’anno su una popolazione di 700 detenuti.
Esiste uno stigma riguardo alle cure psichiatriche in carcere?
Non proprio, anzi c’è addirittura chi le richiede perché consentono di avere certi benefici. C’è però anche chi rimane molto diffidente, specialmente verso le cure farmacologiche: alcuni detenuti di altre etnie, per esempio, rifiutano l’assunzione di certi farmaci in gocce poiché sono convinti che contengano alcol (vietato secondo alcuni precetti religiosi).
Che cosa si fa per la prevenzione dei suicidi che rimane una piaga nelle carceri italiane?
Oggi esiste una procedura - approvata dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (DAP) e, a livello locale, trasferita a tutte le carceri - che inizia dalla presa in carico dei “nuovi giunti” in carcere: lo screening di base viene fatto in primo luogo dagli psicologi che fanno una valutazione iniziale e rimandano agli psichiatri i casi che hanno bisogno di una valutazione più approfondita per individuare fattori di rischio e possibilità di trattamento. A seguire scatta poi un monitoraggio intensivo in tutti quei casi in cui si rilevino disturbi depressivi o pregressi tentativi di suicidio. Rimane il fatto che il suicidio è un atto spesso imprevedibile e non necessariamente collegato al disturbo mentale e la sua prevenzione è ancora molto complessa.