Tutto il mondo è paese, e in tutto il mondo si dicono le parolacce: rappresentano in media lo 0,5% delle parole che produciamo (ok forse quel vostro amico alza la media…). Le diciamo fin da piccoli, le diciamo mentre dormiamo e persino quando disturbi del linguaggio compromettono qualsiasi altra produzione verbale. Insomma l'uso delle parolacce rappresenta uno dei comportamenti linguistici più comuni e universali, con diverse funzioni psicologiche e sociali. Eppure la scienza se ne occupa poco (e spesso lo fa analizzando solo la lingua inglese). A colmare la lacuna, un recente studio pubblicato anche grazie al contributo di Simone Sulpizio, professore del dipartimento di Psicologia dell’Università di Milano-Bicocca. La ricerca riporta i risultati di un ampio progetto interlinguistico che ha consentito di creare un database di “parole tabù”, raccolte in 17 Stati e 13 lingue, spaziando su tutti i continenti abitati.
Ma facciamo subito una precisazione: che cosa si intende per “parola tabù”? «Si tratta di tutti quei termini offensivi e quindi sanzionati o limitati (sia individualmente che istituzionalmente) perché il loro uso può produrre un danno. Si tratta di parole socialmente inappropriate che quindi includono non solo parolacce, ma anche blasfemie, insulti, etichette denigratorie legate all’orientamento sessuale, a caratteristiche fisiche e persino a malattie», ha spiegato Simone Sulpizio. «Per individuare le più usate, abbiamo chiesto alle persone coinvolte nello studio di elencare tutte le parole tabù che conoscevano. Nel farlo, gli abbiamo ricordato che non avevano vincoli ed erano liberi di segnalare tutti i termini che saltavano loro in mente».
In una prima parte dello studio sono stati coinvolti 1.046 partecipanti grazie ai quali è stato creato un grande database. «Abbiamo raccolto dati in 18 laboratori di 17 Paesi (Australia, Belgio, Botswana, Canada, Cina, con due laboratori, uno a Pechino e uno a Hong Kong, Cile, Francia, Germania, Finlandia, Italia, Serbia, Singapore, Slovenia, Spagna, Tailandia, Regno Unito, Stati Uniti d'America). In quali lingue? Cantonese, olandese, inglese, finlandese, francese, tedesco, italiano, mandarino, serbo, setswana, sloveno, spagnolo, tailandese; con alcune di queste lingue (per esempio inglese e spagnolo) parlate in più Paesi», ha precisato Sulpizio.
Nella seconda parte dello studio sono state sottoposte ai partecipanti solo le parole tabù prodotte almeno dal tre per cento dei partecipanti e gli è stato chiesto di “valutarle”. Davanti a uno schermo in cui le parole tabù venivano proiettate, i partecipanti dovevano dare un giudizio secondo sei criteri, ovvero l’età di acquisizione (quanti anni avevano quando l’avevano sentita per la prima volta?), la concretezza (in che misura il referente associato a quella parola poteva essere percepito con i sensi?), la valenza (quanto quella parola era percepita come positiva o negativa?), l'eccitazione (quanta agitazione o coinvolgimento provocava loro sentire quella parola?), l’offensività (quanto trovavano offensiva la parola se immaginata rivolta a loro stessi?), “tabooness” (quanto quel termine era ritenuto offensivo e inaccettabile nella maggior parte delle situazioni sociali?). «Grazie a questa analisi semantica abbiamo visto che le parole più offensive nella maggior parte delle lingue sono quelle che riguardano la sfera sessuale e i genitali», ha aggiunto il professore. «Abbiamo anche notato che nelle diverse lingue analizzate esistono diverse etichette denigratorie che abbiamo circoscritto a tre macro categorie contro cui si concentrano i calunniatori: l’appartenenza a una minoranza, il comportamento sessuale e il credo religioso», precisa Sulpizio.
Un aspetto curioso è che la stessa parola tabù può avere nei diversi Paesi in cui viene pronunciata un diverso grado di “tabooness”, a seconda della diversa sensibilità sociale e culturale, evidenziando la relazione tra linguaggio e norme socio-culturali e morali. «Prendiamo per esempio il termine nipple (“capezzolo”)», racconta Sulpizio. «Nella lingua inglese è certamente tabù, ma lo è molto di più negli Stati Uniti che in Gran Bretagna». «Il confronto tra Paesi diversi in cui si parla una variante della stessa lingua (per esempio Stati Uniti e Gran Bretagna come anche Australia, Canada e Singapore) mostra un certo grado di variabilità nella percezione che i parlanti hanno di quanto le stesse parole siano più o meno tabù e/o offensive, mostrando l’importanza di tenere in considerazione aspetti socio-culturali specifici nello studio del linguaggio tabù».
«Altro dato che abbiamo notato è che conosciamo molto bene le parole tabù ma raramente le scriviamo: insomma le usiamo tantissimo ma non le mettiamo quasi mai nero su bianco. Non solo: le parole più frequentemente riportate come tabù sono anche quelle che compaiono meno nei testi scritti. Lo abbiamo notato anche setacciando svariati documenti su Internet, anche se in effetti l'1% delle parole che scriviamo sul social X sono tabù», conclude il professore. «I nostri risultati potrebbero essere rilevanti per le politiche di comunicazione legate ai social, offrendo indicazioni utili per il monitoraggio e l’identificazione di comportamenti linguistici potenzialmente offensivi. In particolare, potrebbero offrire sia un’indicazione generale sulle categorie di parole più problematiche, sia indicazioni più puntuali sulle intolleranze presenti nelle diverse comunità linguistiche».