Suoni, danze e abiti colorati che evocano terre lontane portati in scena da performer di nazionalità diverse che vivono a Milano. Il contatto tra corpi che trasmette calore e vicinanza. Così, con lo spettacolo “Internazionale Corazon” dell’artista Francesca Marconi, l’Anthroday ha toccato il tema degli scambi interculturali. Il progetto di arte pubblica, andato in scena sabato 19 febbraio al “BASE Milano", è stato l’ultimo dei quaranta appuntamenti dedicati alla scienza dell’uomo e promossi dall’Università Bicocca che per tre giorni hanno animato la città.
AnthroDay – Antropologia pubblica a Milano è diventato ormai un evento tradizionale.
Tre anni fa, nel 2019, il debutto. Ripercorrerne le tappe successive significa affrontare le fasi della nostra storia più recente, legata al Coronavirus: “L’uscita dal mondo, il lockdown e il ritorno sulla Terra”, per dirla con le parole del professor Ivan Bargna, antropologo di Milano-Bicocca e coordinatore della manifestazione.
Professor Bargna, la storia di AnthroDay è inevitabilmente legata agli avvenimenti che hanno cambiato il mondo negli ultimi due anni. In che modo?
Un’immagine su tutte: l’edizione del 2020 si concludeva con una festa in via Paolo Sarpi, nella Chinatown milanese, quando i ristoranti di questa zona erano già stati svuotati dalla paura del virus. Pochi giorni dopo in Italia sarebbe scattato il lockdown.
Colpiti da questa esperienza abbiamo maturato l’idea che Anthroday dovesse essere una piattaforma che durasse tutto l’anno, che consentisse un’interazione che ci legasse al tempo e agli spazi della nostra vita anche quando tutto questo sembrava venire meno. Nel 2021, quando la Lombardia era zona rossa, eravamo pronti con un palinsesto di appuntamenti tutti online che ha avuto molto successo.
Quest’anno abbiamo sperimentato la modalità mista: gli eventi si sono svolti online e in presenza. Di quell’esperienza qualcosa ci siamo portati dietro.
Presenza e digitale: quale dimensione caratterizzerà il futuro dell’antropologia?
Credo che, tranne eccezioni, la strada sia quella di un ritorno in presenza. L’interazione faccia a faccia richiede uno sforzo, anche fisico, che agisce molto di più sulla motivazione delle persone. In presenza si sviluppano soprattutto le nuove relazioni. Online è molto difficile: tutto si somiglia, tutto sta dentro gli stessi format, tutto risulta depotenziato. Per l’antropologia l’incontro è irrinunciabile.
AnthroDay nasce con l’intento di portare l’antropologia fuori dall’università. Perché questa necessità?
Questa rassegna è innanzitutto un modo per intensificare i rapporti tra università, terzo settore e mondo del lavoro, creando degli sbocchi per quelli che sono i nostri laureati e dottori di ricerca. Mostriamo in modo concreto quello che è il lavoro degli antropologi e i suoi usi nella sfera pubblica. Tutti gli appuntamenti sono realizzati insieme a figure che operano fuori dall’università, si riesce a mostrare come lavora l’antropologo in sinergia con altri professionisti, così come recitava il claim di questa edizione “Mai da soli, almeno in due”.
Può farci qualche esempio, in che modo collaborano antropologi e altri professionisti?
Gli ambiti sono molto diversi. Uno tra questi è quello della cura: dall’etnopsichiatria, alla cura oncologica, fino alle situazioni legate al parto. L’antropologo collabora con gli specialisti della salute andando a osservare e comprendere i contesti e le relazioni che si instaurano per esempio tra pazienti e personale sanitario all’interno delle strutture. Si va a vedere come funzionano le relazioni, come le persone riescono – o non riescono – a comunicare tra loro in base a quelli che sono i saperi specialistici, i codici istituzionali, le credenze o semplicemente il senso comune.
Quali sono gli aspetti che un antropologo è in grado di cogliere?
Tanti aspetti delle relazioni tra persone, o tra persone e luoghi, che diamo per scontati, con l’approccio antropologico vengono smontati in maniera tale da tirare fuori punti di intoppo, gli sfasamenti tra quello che uno crede o pensa di sé e degli altri e quella che invece è la realtà. Spesso le persone non si “incontrano” perché partono da modelli e condizioni culturali diversi dando per scontato che siano condivisi.
Gli antropologi cercano di incoraggiare i processi di cambiamento e di miglioramento delle condizioni di vita delle persone cercando innanzitutto di verificare insieme alle persone quello che vogliono, quello che pensano e andando a misurare le distanze tra questo e quello che di fatto accade.
In quest’ottica Milano è un osservatorio privilegiato
Tutte le esperienze che facciamo emergere durante l’Anthroday hanno a che fare con Milano. C’è un forte radicamento territoriale. Ma senza chiusure perché Milano è una realtà aperta, contraddistinta da una dimensione internazionale e dunque da una grande diversità culturale. Legare l’Anthroday a Milano significa fare di questa città un laboratorio a cielo aperto e far emergere esempi che almeno parzialmente possono essere trasferiti altrove.
Alla diversità culturale che contraddistingue Milano era legato, fra gli altri, uno degli appuntamenti di quest’anno: la mostra “Tricolore 2022”. Ce ne parla?
Nella Milano interculturale si è milanesi in diversi modi. Tricolore 2022 è una mostra che attraverso le opere dell’artista Luigi Christopher Veggetti Kanku dà visibilità alle comunità e alle persone afrodiscendenti, rappresentandole nella loro normalità. L’intento è quello di strapparle a una visione stereotipata dell’alterità: lo straniero che resta sempre tale, quando in realtà è assolutamente prossimo a noi, tanto più che nel contesto milanese e non solo spesso parliamo di seconde o terze generazioni.