A ventidue anni dalla riforma del Titolo V della Costituzione, che ha radicalmente cambiato il quadro delle competenze delle Regioni, si apre un nuovo percorso che ha come approdo l’autonomia differenziata. È la stessa Carta costituzionale a prevedere che le Regioni possano raggiungere un’intesa con lo Stato per ottenere, in alcune materie, “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia”. Il disegno di legge approvato dal Governo prevede un iter piuttosto articolato e punta a garantire che con il nuovo assetto delle funzioni - che potrebbe variare da Regione a Regione - vengano assicurati su tutto il territorio italiano standard minimi uniformi per le prestazioni da offrire ai cittadini.
Di questa riforma e di altri possibili mutamenti nell’assetto istituzionale italiano abbiamo parlato con il professor Federico Furlan, che insegna Diritto regionale in Bicocca.
Dopo il riassetto del 2001, le Regioni sono pronte a reggere il peso di un possibile ampliamento delle funzioni?
Vent’anni sono un periodo di assestamento sufficiente. C’erano stati errori di scrittura nella riforma del Titolo V. Alcune materie non andavano attribuite alle Regioni. Penso, ad esempio, alle grandi infrastrutture. La parcellizzazione delle competenze in materie strategiche non è utile. Sull’altro versante, a livello centrale ci sono state ingerenze eccessive in materie affidate alle Regioni. Basti ricordare il Codice del Turismo di cui è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale di alcune parti. La stessa Corte costituzionale ha elaborato dei criteri di sussidiarietà per colmare dei vuoti normativi nella gestione delle competenze.
Pare di capire che prima di una nuova riforma ampliativa occorra fare un tagliando a quella del 2001.
Il primo passo da compiere oggi dovrebbe essere una revisione della Costituzione alla luce dei principi affermati in questi anni dalla Consulta. A mio avviso, inoltre, andrebbe ripensato il riparto di competenze affidando alla legislazione esclusiva dello Stato le materie oggi oggetto di legislazione concorrente e dando alle Regioni la potestà di decidere gli assetti degli Enti locali. Inoltre, manca ancora un raccordo forte tra Stato e Regioni: la Conferenza unificata è un organismo istituito con legge ordinaria e non è mai stato costituzionalizzato. In un’ottica complessiva si potrebbe andare a riprendere ciò che di buono c’era in alcuni progetti di riforma, come ad esempio il Senato delle Regioni che consentiva di superare il bicameralismo perfetto e, al tempo stesso, avere un organismo realmente rappresentativo delle autonomie locali.
Rispetto al progetto di autonomia differenziata, qual è il suo parere? Una asimmetria di competenze potrebbe andare a svantaggio di alcune aree del Paese e a vantaggio di altre?
In generale, mi viene da dire “molto rumore per nulla”. C’è una sola materia che può cambiare gli assetti ed è quella dell’Istruzione. Non parlo degli aspetti legati ai contenuti dell’insegnamento o ai criteri di selezione del personale, ma del “peso” che hanno le funzioni amministrative: in Lombardia l’Istruzione vale 5 miliardi. Per dare un parametro di riferimento, il bilancio regionale è di 26 miliardi, di cui 20 destinati alla Sanità. Il disegno di legge sull’autonomia differenziata prevede che l’unitarietà dei servizi sul territorio nazionale sia garantita attraverso i Lep, i livelli essenziali delle prestazioni. In alcuni ambiti esistono già. È il caso della Sanità. Eppure, questo non ha impedito fenomeni come la mobilità sanitaria. Nelle Regioni che hanno un forte deficit pregresso, le risorse servono in gran parte a coprire le spese del passato e così diventa difficile migliorare i servizi. Il tema, dunque, non è tanto il riparto dei fondi che verrà attuato con l’autonomia differenziata, quanto quello di come intervenire per colmare i gap esistenti. Penso, piuttosto, che il rischio sia un altro.
Quale?
È possibile una forma di impoverimento indiretto per alcune aree del Paese. Se una Regione è nelle condizioni di poter pagare di più il personale di un comparto risulterà più attrattiva, con la conseguenza che si accentuerà il fenomeno della migrazione verso le aree più ricche e quelle meno ricche perderanno sempre più capitale umano.
Mentre il dibattito politico si concentra sui poteri delle Regioni, gli elettori sembrano sempre meno interessati a scegliere i loro rappresentanti, come dimostra il crollo dei votanti alle ultime elezioni.
Il calo dell’affluenza alle urne è un fenomeno generalizzato, che non riguarda solo l’Italia o solo un’area geografica. C’è la percezione, da parte degli elettori, di non poter incidere davvero neppure con il voto. Le riforme hanno dato credibilità agli Enti locali perché, grazie ad una maggiore stabilità, c’è davvero la possibilità di portare avanti dei progetti politici. Questo non è ancora avvenuto per altri livelli istituzionali.
A proposito di Enti locali, c’è chi vorrebbe una “controriforma” delle Province, ripristinando il meccanismo dell’elezione diretta del presidente. Il disegno di legge presentato al Senato può avere una sua utilità?
La riforma del 2014 rispondeva alla logica di attuare un taglio delle spese, anche se non vedo perché un amministratore chiamato a svolgere del lavoro in più non debba essere pagato. Il ritorno all’elezione diretta non è la cosa più urgente. Lo è, invece, una revisione del meccanismo di riparto delle risorse affinché le Province possano assolvere ai compiti che hanno. Manutenzione delle strade e delle scuole sono rilevanti per i cittadini? Allora è giusto prevedere finanziamenti adeguati. La normativa attuale, comunque, consente alle Città metropolitane, tramite statuto, di scegliere il meccanismo dell’elezione diretta. Questo potrebbe avere una sua utilità per far sì che l’incarico di sindaco metropolitano sia affidato a chi ha una visione d’insieme e non in automatico al sindaco del capoluogo, il quale potrebbe essere portato ad avere una maggiore attenzione per la propria città.