Si è appena concluso un laboratorio intitolato "La desistenza dal crimine", destinato a studentesse e studenti del Corso di Laurea Magistrale Progest (Progettazione e gestione delle politiche sociali).
Il laboratorio si è tenuto quest'anno nella Casa di Reclusione di Bollate ed ha visto la partecipazione di 15 studentesse Progest e 15 studenti detenuti. L'attività si inserisce nell'ambito delle iniziative di formazione culturale e didattica del Polo Penitenziario di Ateneo.
Il corso si propone di analizzare le carriere devianti nel lungo periodo, considerando i fattori di rischio, i cicli, i turning point, le transizioni e le traiettorie che definiscono ogni percorso di vita. I meccanismi che conducono sia all’ingresso sia all’uscita dalle carriere devianti - cioè alla desistenza dal crimine - sono spesso sfuggenti. Allo scopo di accogliere la loro ambiguità, si ricorre al potere evocativo di alcune fiabe selezionate, che accompagnano la riflessione condivisa.
Una lettera aperta, scritta dal gruppo di lavoro al termine del percorso, mira a sensibilizzare la collettività sul reinserimento sociale.
Ne riportiamo integralmente il testo.
Siamo un gruppo di studenti detenuti della Casa di Reclusione di Bollate, iscritti a diverse Facoltà e Atenei, e di studentesse del corso di Laurea Progest dell’Università degli studi di Milano Bicocca.
Ci siamo incontrati per cinque giorni in carcere nel maggio del 2022 per seguire insieme il laboratorio “La desistenza dal crimine”, che analizza come si fa a interrompere una “carriera deviante”, a smettere di commettere reati. Abbiamo riflettuto molto sulla costruzione di una nuova narrazione di sé, sul sentirsi frammentati, sulle fatiche delle vite “devianti” e su quelle emozioni forti regalate dal crimine che con il tempo si esauriscono. Ci siamo detti che rigare dritto richiede un grande sforzo e che si tratta spesso di un percorso oscillante. Innanzitutto, ci stiamo impegnando ad affrontare la vita anche quando è dura e ristretta, senza subirla. Proviamo a non sentirci delle pedine. In questo, aiuta avere qualcosa a cui aggrapparsi, che sia un lavoro, lo studio, un amore, una passione, e aiuta avere l’opportunità di ridare indietro alle nostre famiglie e alla comunità quello che ci siamo portati via.
Per entrare però in contatto con la nostra vera identità, e quindi per cambiare, abbiamo capito che è necessario che anche il mondo là fuori faccia dei passi verso di noi. Il nostro nuovo racconto di noi stessi non può esistere senza il vostro. Questa lettera è rivolta a chi intende reinserirsi nella società, cioè a diventare un “desister” – o un "disaster" come scherzosamente dice uno di noi – si rivolge poi alle famiglie, agli amici, agli operatori, alla società, alle istituzioni e a chiunque voglia coglierla. Usiamo il noi, perché ci sentiamo un gruppo, ma parliamo dell’esperienza e dei desideri di cambiamento degli studenti detenuti che hanno preso la forma che segue grazie al dialogo e al confronto con le vite delle studentesse libere.
Partiamo da noi. E dalla sensazione di essere finiti in un buco.
Siamo tutti diversi, unici e il percorso da fare cambia a seconda della condanna e del passato di ognuno. Non siamo però solo il reato che abbiamo commesso. Vorremmo uscire dal carcere sentendoci vivi e crearci delle opportunità. Per tenerci vivi qui dentro, dobbiamo darci forza a vicenda, focalizzando l'attenzione non tanto sul giorno in cui siamo stati arrestati ma sul percorso che abbiamo fatto e stiamo facendo per ripensarci e uscire dal buco.
Non ci sottraiamo al giudizio, puntiamo il dito prima contro di noi e poi contro gli altri. Nel farlo, però, sappiamo che non dobbiamo annientarci e perdere la fiducia in noi stessi.
Il pensiero di chi ci attende fuori aiuta ma non possiamo aspettarci sempre che famiglia e amici ci supportino, considerando gli errori commessi. Sperarlo, però, ci fa bene. È davvero complicato mettere da parte l’orgoglio e andare a chiedere un aiuto alle persone che abbiamo deluso, a coloro che amiamo e che si aspettavano una vita totalmente diversa. Proviamo a farlo, ogni giorno, per un senso di rivalsa, per la voglia di ricominciare che prevale sulla vergogna.
Sappiamo che avremmo dovuto capire prima che nella vita la famiglia conta e le parole non bastano per suggerire cosa significhi rendersene conto solo dopo. Ci piacerebbe sentire però che “non è mai troppo tardi” per una nuova opportunità e sapere che i nostri familiari non si colpevolizzino per quanto è successo. Non chiediamo di essere perdonati, sarebbe troppo.
Intanto, siamo ancora in quel buco e ci chiediamo spesso chi siamo. Non abbiamo risposte ma sappiamo che da soli non possiamo uscire. Abbiamo bisogno di una mano.
Anche grazie all’esperienza del nostro incontro e del Laboratorio seguito insieme, ci sentiamo di ribadire quanto sia fondamentale pensare il carcere e il mondo là fuori come tessere di un unico mosaico. Attraverso il Laboratorio e con questa lettera, stiamo unendo delle tessere. Non sappiamo che disegno uscirà ma abbiamo la consapevolezza che escludendo qualche pezzo risulterà incompleto. Avevamo dei pregiudizi prima di incontrarci, li abbiamo superati in poche ore. Come? Parlandoci. Vogliamo comunicare e ascoltare. Vogliamo unire tessere e vi invitiamo a provarci con noi.
A dire il vero il mondo esterno con noi non è stato sempre così accogliente e un po’ al momento ci spaventa, sia la libertà sia gli sguardi giudicanti che incontreremo. Hanno messo alla gogna mediatica alcuni di noi, senza rispetto, senza verità, senza includere la nostra voce. Ci siamo sentiti il giudizio sulla pelle. A volte abbiamo pensato che la sentenza del Tribunale fosse stata condizionata dai media. Ma non siamo solo così, come ci hanno descritto. Per darci una mano ad uscire dal buco bisognerebbe raccontare anche quante e quali altre versioni di noi stessi possiamo essere. Non vogliamo più la spettacolarizzazione del crimine. Vorremmo dare dignità di narrazione a tutto quello che stiamo sperimentando in positivo in questo carcere, in cui continuano a darci opportunità per pensare al senso delle nostre vite, per condividere, per costruirci un percorso di studi e professionale. Il mondo esterno dovrebbe sapere.
Ci rivolgiamo anche a chi il carcere lo vive con noi ogni giorno, alle operatrici, agli operatori e agenti di polizia penitenziaria. Siete il nostro primo contatto in carcere e restate con noi per tutta la nostra detenzione. Voi avete una posizione strategica: vedete quello che funziona e quello che non funziona e avete la possibilità di essere ascoltati là fuori. Vorremmo costruire con voi una nuova idea di reclusione: educativa, funzionale, atta a prepararci a rientrare nella comunità. Al momento viviamo con affanno la frenesia del rapporto con voi e abbiamo compreso che ci sono dei vincoli che ci imbrigliano. Vorremmo combattere insieme per il diritto a fermarci a guardarci, a vederci, a conoscerci, a vedere la nostra complessità e lavorarci, senza considerarla un ostacolo.
Noi e voi vediamo e subiamo tutte le ipocrisie e le storture del sistema penale: lavoriamo insieme per cambiare le cose e raggiungere quell’ideale di pena riabilitativa ed educativa così come è definita nella nostra Costituzione.
Abbiamo tante idee che aspettano solo di essere ascoltate.
Per noi è giunto il momento per pensarci come "desister" ma per uscire dal buco abbiamo un bisogno vitale di un cambio di sguardo da parte del mondo esterno.
Noi ci sentiamo pronti, e voi?
Se avete voglia di instaurare un dialogo con il gruppo che ha scritto questa lettera vi invitiamo a scrivere a Oriana Binik, che ha condotto il laboratorio.