Una bambina muore durante una sfida estrema dinanzi ad uno smartphone che la riprende, un bambino si toglie la vita forse per effetto di emulazione, un ragazzino condivide in una chat foto osé della fidanzatina minorenne. Negli ultimi giorni la cronaca fornisce numerosi esempi – alcuni con risvolti tragici – dei pericoli legati ai social. E ci si interroga su quale sia il corretto uso degli strumenti tecnologici, su chi debba vigilare e, soprattutto, su come preparare i giovanissimi utenti ad un utilizzo consapevole. Ne parliamo con i pedagogisti Elisabetta Biffi e Pierangelo Barone, docenti del nostro ateneo.
«La dimensione del rischio, del mettersi alla prova per confrontarsi con le grandi paure, è sempre esistita – osserva il professore Barone –. Il fascino della sfida è un tema evidenziato da tanti studiosi ed è legato ad un bisogno quasi antropologico, una necessità di legittimarsi come soggetti capaci di affrontare il mondo. Le dinamiche sono sempre le stesse, quello che c’è di nuovo oggi sono i mezzi ed è innegabile un effetto amplificatore dovuto ai social». Amplificatore, ma anche distorsivo, come spiega lo stesso Barone: «Lo dico con sguardo analitico e non moralistico: i social network operano sull’immaginario, manipolandolo. Tendono a modellare le rappresentazioni mentali perché le immagini che propongono producono effetti sul modo in cui ragazze e ragazzi pensano se stessi. Gli studiosi dicono che fanno perdere un po’ di consapevolezza». A volte fino al punto di annullare la capacità di commisurare il valore della vetrina offerta al rischio corso. E questo vale sia quando la posta in gioco è la dignità della persona, sia quando è addirittura la vita.
È qui che la sfida vera da affrontare diventa quella educativa. «Dare uno smartphone ad un bambino non significa dargli un oggetto, ma la possibilità di entrare in un ambiente, quello digitale», osserva la professoressa Biffi. Per questo quando si decide «di dare un dispositivo tecnologico in mano ad un bambino» c’è bisogno di «accompagnarne l’uso», come evidenzia Barone. La professoressa Biffi lo spiega con un esempio: «Così come accompagniamo i nostri bambini la prima volta nel tragitto casa-scuola, altrettanto dobbiamo fare in quello che riguarda l’utilizzo degli strumenti tecnologici. Il fatto che i giovanissimi padroneggino questi strumenti da punto di vista tecnico non significa che abbiano anche la necessaria maturità per cogliere il significato di quello che fanno. Essere “smanettoni” significa saper azionare la maniglia per aprire la porta di una stanza, ma prima di entrare bisogna sapere anche cosa c’è nella stanza».
Come “accompagnare” i bambini e i ragazzini è un nodo non facile da sciogliere. C’è il rischio di cadere negli eccessi. «Occorre esserci senza sostituirsi», spiega Barone. E Biffi aggiunge: «Oggi gli spazi di autonomia per i nostri bambini si sono ridotti, spesso fuori casa vediamo pericoli ovunque e non li lasciamo fare nulla da soli. In realtà, se c’è una cosa che la pandemia ci ha insegnato è che, vedendo contrarsi lo spazio del mondo fisico, i ragazzi sono andati a cercare uno spazio nel mondo virtuale. Dobbiamo ragionare su come fare a costruire una autonomia. Un esempio può venirci proprio dalle tragiche vicende di questi giorni e da come i genitori le hanno spiegate ai figli: si può pensare di tenerli al riparo terrorizzandoli o, al contrario, si può ignorare il problema ma in nessuno dei due casi si costruisce consapevolezza. Gli adulti non devono avere paura di parlare di cose scomode perché anche questo aiuta a crescere».
E questo vale non solo per i genitori, ma anche per i nonni. «I bambini vengono educati da tutti gli adulti che hanno intorno e da essi prendono esempio», conferma Biffi. Barone aggiunge: «Quello del sostegno educativo ai nonni è un tema poco trattato. Sarebbe opportuna una progettualità da parte dei servizi territoriali che coinvolga i nonni in un percorso di consapevolezza rispetto a tematiche di grande attualità».
In generale, per Barone c’è una questione dibattuta da decenni ed è «quella della ricostruzione di un dialogo intergenerazionale». Quanto allo specifico dei social, osserva: «Non serve essere presenti sempre, ma creare degli spazi di dialogo perché questo permette di intercettare dei segnali di allarme». Un suggerimento pratico? «Chiedere aiuto per capire il funzionamento di una app, ad esempio, può diventare occasione per confrontarsi anche sui contenuti. Vale per le piattaforme social come per quelle di messaggistica».
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