Le molteplici solitudini di una vita - Bnews Le molteplici solitudini di una vita

"Viviamo uno strano paradosso: nessuno può dirsi solo, eppure tutti, in qualche misura, sentiamo, e temiamo di esserlo. Mai come oggi godiamo di un'incredibile abbondanza di strumenti per comunicare, eppure manchiamo dell'essenziale per dire e sentire. I mezzi di comunicazione di massa ci governano, modificano i nostri comportamenti, entrano nella nostra quotidianità alterandone regole ed equilibri secolari, eppure non possiamo fingere di non accorgerci di quanto la nostra affettività si sia così profondamente desertificata."

(da “Solitudini: memorie di assenze” di Paolo Crepet)

Nella nostra contemporaneità siamo soli e sole in molte momenti della nostra quotidianità: nei luoghi del lavoro; nelle metropolitane affollate; nella pausa pranzo consumata velocemente in mensa o al bar, oppure, dopo il Covid, nel nostro stesso ufficio.

La solitudine abita tutte le età della vita da quando nasciamo fino alla morte. È un’esperienza complessa e molto variegata per cui sarebbe meglio parlare di solitudini, al plurale.

La professoressa Micaela Castiglioni, insieme alle studentesse e agli studenti del suo insegnamento in Educazione degli adulti e degli anziani, ha esplorato questo tema nelle sue molteplici sfaccettature. Del tema si parlerà il 6 marzo (Aula Martini, ore 9.00) nel convegno dal titolo “Solitudini contemporanee”.

Professoressa, perché parlare di solitudini oggi?

L’idea nasce da una mia riflessione personale e da una particolare attenzione alle esigenze e desideri dei miei studenti. Come docente di pedagogia, inoltre, mi ero resa conto, che dal punto di vista degli studi scientifici, si trova poco o nulla sul tema della solitudine. Per cui ho iniziato a rivolgere il mio interesse di ricerca verso questo argomento, scoprendo così che in realtà non si tratta di una sola solitudine ma di molte e che esse accompagnano tutto l’arco della vita.

Quante solitudini viviamo oggi?

La prima esperienza di solitudine è alla nascita, con la separazione dall’utero materno e i primi mesi di vita in cui il neonato si rende conto di “essere altro” dalla mamma. La solitudine è un’esperienza che nasce e muore con noi, ma ci sono differenze e trasversalità: noi ci siamo soffermati in particolare sulla solitudine degli adulti, uomini e donne.

Di questa, in effetti, se ne parla poco, perché forse non si pensa che anche gli adulti hanno dei bisogni e che vivono spesso la solitudine. In una società così individualista, frenetica e competitiva, la solitudine accompagna diverse fasi della vita, mi viene da dire, tutte. Per le donne, neo-mamme, forse non tutte, una specifica è quella post-maternità, vissuta spesso unita alle “sorelle”, depressione e malinconia. Soprattutto se parliamo di donne primipare.

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Dopo la pandemia, abbiamo spesso riscontrato la solitudine nel mondo del lavoro, basti pensare all’architettura stessa dei luoghi di lavoro. C’è poi la solitudine nelle carceri, di cui parleremo con Don Gino Rigoldi, sofferta per esempio dai minori non accompagnati, spesso non alfabetizzati nella loro lingua d’origine, che hanno bisogno di “sentirsi amati” e, quindi, meno soli. Come diceva il pedagogista Danilo Dolci “nessuno può (che) crescere se non è pensato da un altro”: perché, il sentirsi amati e accolti ci fa sentire meno soli.

Infine, la solitudine delle vecchiaie: quella di chi, sebbene vecchio o vecchia, sta bene, ed è ancora abbastanza autonomo/a, e quella di chi, invece, non lo è più. In particolare, vi è la doppia solitudine di chi ha perso il proprio coniuge, magari dopo una vita trascorsa insieme: diventa quindi importante accompagnare la persona a non perdere la coerenza di sé, il senso di integrazione (verso una ricongiunzione), attraverso la memoria dei ricordi più belli, che non si perdono, ovviamente, in assenza di patologie cognitive senili.

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Quale secondo lei “è più rischiosa”?

Penso che non ci sia una netta demarcazione. Un’età in cui la solitudine possa essere più o meno a rischio. Certo, nell’età adolescenziale, per esempio, si hanno meno strumenti di rielaborazione del proprio mondo interno, per cui forse, si potrebbe indicare l’adolescenza come l’età più a rischio. Però, direi di non avere riscontrato demarcazioni nette, certo, dobbiamo tenere conto della presenza, o al contrario, mancanza, di fattori esterni, di contesto, di opportunità di reti territoriali, ecc., di trame di senso (come le chiama Borgna).

Anche se, in ogni età della vita, la solitudine più rischiosa è quando mi sento sola o solo “dentro”. Ecco, perché, in qualunque età della vita la persona andrebbe accompagnata a saper stare da sola, a stare dentro la propria solitudine potendole dare un senso.

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Nelle installazioni (antistanti l’Aula Martini, visitabili dal 5 al 7 marzo) ideate e realizzate da una studentessa, Chiara Grigolato, sarà ricostruita una cameretta dove ci saranno fiabe scritte dalle mie studentesse, perlopiù, per avvicinare i bimbi (dai 3 ai 5 anni) all’esperienza e al vissuto della solitudine.

Possiamo, invece, pensare che la solitudine sia un’esperienza “generativa”?

Certamente. È la solitudine scelta, ma che possiamo anche subire, purchè si riesca o si sia aiutati a darle un senso, un significato, in maniera attiva. Nella solitudine e nel silenzio ci chiediamo “cosa vogliamo davvero”, “cos’è importante per noi”, per scoprire che sappiamo stare soli e che lo desideriamo, anche.

Allora, la solitudine diventa non subita ma scelta. Ognuno di noi decide di abbandonare la maschera che mette ogni giorno, perché si sente inadeguato a far parte di un gruppo, perché si illude di non sentirsi solo, e finalmente possiamo percepirci come un “sono io”, per dirla alla Winnicott, che è diverso dall’ “io sono”…