Dal 23 al 27 maggio, Milano Arch Week 2018 si propone di riflettere sul futuro della città e sulle dinamiche dell’architettura contemporanea. Abbiamo colto lo spunto per fare qualche domanda a Giacomo Biraghi (www.secolourbano.com), docente a contratto del laboratorio Mega Eventi (Corso di Laurea in Scienze del Turismo e Comunità Locale) ed esperto internazionale di strategie urbane, riguardo al rapporto attuale tra architettura e vita nelle città.
Giacomo, tu viaggi molto e hai occasione di confrontare numerose città. Secondo te l’architettura urbana moderna è più spesso al servizio della funzionalità (intesa come utilità per gli abitanti delle diverse zone delle città) o dell’estetica (con progetti decisi dall’alto a tavolino in stile Brasilia)?
Direi che definire l’architettura oggi in modo univoco è abbastanza impossibile, oltre che sbagliato. Parlerei quindi di “Architetture” e non più di “Architettura”.
Si va da casi estremi (come Dubai) dove chiaramente la forma prevale su ogni altro parametro, quasi a divenire una scenografia, a situazioni effimere (come gli Expo o i Burning Man) dove l’architettura si priva di ogni valenza strutturale per divenire mera fruizione, fino a città (come Copenaghen) dove si permette ad ognuno, senza regole e permessi, di costruire la propria casa dei sogni con i materiali e le forme che desidera, un’architettura super umana si potrebbe dire.
La cosa importante è non giudicare migliore o peggiore questa o quella modalità di intendere e di praticare l’architettura: le città sono processi dinamici, dove interessi individuali e diversi magicamente si trasformano in benessere collettivo. L’architettura è quindi un mero strumento della forma diversa che tale processo assume in differenti periodi storici e in diverse geografie.
Il quartiere di Milano-Bicocca è una grande opera architettonica (Studio Gregotti e Associati) che punta al recupero dei luoghi senza cancellarne la memoria storica. Gli interventi attualmente in atto nelle altre periferie (milanesi e europee) puntano alla trasformazione o alla continuità?
Anche qui l’attitudine giustamente varia molto da luogo a luogo, da cultura a cultura, da sistema economico a sistema economico. Esistendo ormai una serie di “Architetture” diverse, intese come differenti approcci disciplinari anche contradditori, cambiano anche gli approcci in atto. Non esiste in Europa una unica ricetta, con grande dispiacere delle accademie e delle grandi archistar.
Anche a Milano stiamo sperimentando in modo casuale diversi approcci, dalla ricostruzione postindustriale minuziosamente attenta al ricordo delle fabbriche che furono (il progetto di Renzo Piano a MilanoSesto) al "rimuovere qualsiasi traccia" del progetto del Portello (con il famoso parco esoterico di Jencks). Ma va bene così. L’era della pianificazione e del fare tutto allo stesso modo è fortunatamente archiviata.
Viviamo in un’epoca segnata da due grandi problemi: il terrorismo e il cambiamento climatico. Come si stanno riflettendo su particolari scelte architettoniche e urbanistiche?
Direi che in questo caso tanto si parla e si scrive e poco si produce. Tranne casi estremi (come Singapore e il controllo massivo tramite telecamere e badge) o circostanze emergenziali (come la ricostruzione di alcune città in Cile post maremoto con una sostanziale e inedita attenzione ad aree di rispetto in cui l’acqua può raccogliersi prima di arrivare nelle zone abitate), è tutto nei convegni e poco nelle strade. Un po’ come quando si parla di Smart Cities…
Per la buona riuscita di Expo2015 che ruolo ha svolto l’architettura?
L’architettura è stata una scenografia essenziale, ma la vera rivoluzione è stata in questo caso urbanistica. L’idea di Herzog di costruire un decumano sul quale tutto il mondo, in modo egualitario, avrebbe costruito i propri padiglioni e tutti i visitatori, in modo democratico, avrebbero sfilato in una sorta di grande festa di paese ha funzionato benissimo. È stata la cifra del nostro modo di concepire un Expo.
Cosa possiamo augurarci dal futuro dell’architettura?
Che diventi meno arrogante nel pensare di avere una ricetta buona per tutto e per sempre. Le città sono processi, non sono strutture immobili e perenni.
*Foto scattata da Giacomo Biraghi