La crisi tra Ucraina e Russia, la guerra alle porte di Kiev e l’emergenza umanitaria sono ormai all’ordine del giorno nel dibattito pubblico. Con Antonello Tancredi, professore di Diritto internazionale, proviamo a tracciarne il contesto, a scoprirne le ragioni, a intravedere possibili soluzioni, sulla base delle regole che disciplinano le relazioni tra Stati.
Professore, qual è l’origine del conflitto?
Si può far risalire a tre avvenimenti del 2014. A febbraio di quell’anno ci fu una sommossa popolare e di piazza contro l’allora presidente dell’Ucraina, Viktor Janukovyč, considerato filorusso, che portò alla sua destituzione dal Parlamento tramite procedimento di impeachment e all’istituzione di un governo provvisorio. Secondo i russi, un colpo di stato. A marzo, una sollevazione contro l’autorità ucraina nella regione della Crimea, appoggiata dalle forze militari russe, portò a un referendum favorevole all’annessione alla Russia. Copione simile nelle due province del Donbass, Donetsk e Luhansk: insurrezione sostenuta indirettamente – con armi e volontari – dalla Russia, e dichiarazione di indipendenza. Seguita da una guerra civile ancora in corso.
La situazione non si è risolta in questi otto anni?
Ci sono stati tentativi di porvi rimedio, purtroppo falliti. Nel 2015 Ucraina, Russia ed altri Stati europei firmarono gli accordi cosiddetti di Minsk II: l’Ucraina avrebbe avviato un processo per riconoscere l’autogoverno alle “repubbliche” del Donbass. Le “forze armate straniere”, anche mercenarie, avrebbero abbandonato le due regioni. Ma non era stata chiarita la successione cronologica delle due disposizioni, chi doveva cominciare per primo. Così, gli accordi sono rimasti lettera morta. Inoltre, dal 2019, da quando è stato eletto il presidente attualmente in carica, Volodymyr Zelensky, l’Ucraina si è sempre di più avvicinata alla Nato. E la Russia ha preteso dagli Stati Uniti e dall’Alleanza Atlantica garanzie formali e scritte di non ampliare la propria presenza nell’Est Europa. Le garanzie sono in parte arrivate, ma solo a livello verbale.
In questo contesto, scoppia la guerra. Perché?
Dopo avere inviato negli ultimi mesi uomini e mezzi al confine ucraino, il 21 febbraio la Russia ha riconosciuto le due “repubbliche” separatiste del Donbass. E il 24 febbraio ha invaso l’Ucraina. Il presidente russo Vladimir Putin ha descritto l’azione militare come una “operazione speciale”, avviata, tra l’altro, per rispondere ad una richiesta di legittima difesa collettiva proveniente dalle autorità delle due Repubbliche secessioniste, le cui popolazioni oltretutto sarebbero state minacciate di genocidio. Una denuncia smentita dai rapporti dell’ONU, di altre organizzazioni internazionali e delle ONG presenti nel territorio, che pur riconoscendo la presenza di tensioni e anche di violazioni dei diritti dell’uomo in quell’area geografica, non hanno mai denunciato casi di genocidio, ovvero di volontà di uno Stato di distruggere in tutto o in parte un gruppo nazionale o etnico in quanto tale, il crimine più grave secondo il diritto internazionale. Il 2 marzo, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite, attraverso una sua risoluzione, ha condannato l’intervento militare russo, qualificandolo come un’aggressione lesiva del divieto di uso della forza nelle relazioni internazionali previsto dall’art. 2, par. 4 della Carta delle Nazioni Unite. Anche la dichiarazione di riconoscimento delle due Repubbliche di Luhansk e Donetsk è stata ritenuta contrastante col rispetto dovuto alla sovranità e integrità territoriale di ogni Stato, principi che a loro volta discendono dall’art. 2, par. 1 della stessa Carta dell’ONU. Si tratta di una risoluzione adottata da 141 Paesi membri su 193. Solo 5 i contrari: Russia, Bielorussia, Corea del Nord, Siria ed Eritrea.
Il diritto internazionale è stato travolto dal conflitto?
Da un lato c’è chi sostiene che sia una delle vittime della guerra. Dall’altro lato, le forze in campo si sono richiamate più volte ad esso, lo hanno usato come lingua comune insomma, pur talvolta distorcendolo. La Russia giustifica la sua azione militare sulla base dell’articolo 51 della Carta dell’Onu, il diritto alla legittima difesa, individuale o collettivo. In senso individuale, con riferimento all’esistenza di una minaccia per la sicurezza del proprio territorio, richiamandosi velatamente alla dottrina della legittima difesa preventiva invocata dal presidente americano George W. Bush, dopo l’11 settembre 2001, per motivare azioni militari all’estero. In senso collettivo, invece, l’intervento sarebbe avvenuto – come detto - in difesa delle due Repubbliche del Donbass, vittime di un attacco armato. Un’argomentazione rigettata da larga parte della comunità internazionale, con la citata risoluzione dell’Onu. Le due “repubbliche” secessioniste, infatti, formalmente sono ancora parte del territorio ucraino e mancano dei due elementi caratterizzanti la statualità (che è condizione per invocare la legittima difesa prevista dall’art. 51 della Carta dell’ONU): una piena effettività, ovvero l’esercizio di una potestà stabile ed esclusiva su una comunità territoriale, in quanto il conflitto interno è ancora in corso, le autorità ucraine non hanno rinunciato in questi anni a riaffermare il loro controllo su quella parte di territorio e, inoltre, il controllo dei separatisti riguarda solo una parte del Donbass (rivendicato invece nella sua interezza e come tale oggetto del riconoscimento russo); esse inoltre mancano anche d’indipendenza, in quanto dipendono, in risorse, forze militari e strutture politiche, dalla Russia. Secondo il diritto internazionale sarebbero “Stati fantoccio”. Né sembra essere fondato l’appello russo al diritto cosiddetto di “secessione-rimedio” al fine di giustificare il riconoscimento delle due Repubbliche come Stati sovrani. Tale diritto sussisterebbe quando un gruppo d’identità infra-statuale (la popolazione del Donbass, in questo caso) è vittima di gravi violazioni dei diritti dell’uomo che ne mettono a repentaglio la stessa sopravvivenza. In primo luogo, infatti, la Corte internazionale di giustizia (uno dei principali organi delle Nazioni Unite), nell’ordinanza del 16 marzo 2022 sulle misure provvisorie richieste dall’Ucraina nel quadro delle allegazioni relative alla Convenzione contro il genocidio, ha escluso l’esistenza di prove di un genocidio in corso nel territorio ucraino. D’altro canto, questo diritto alla secessione-rimedio non è in realtà mai stato riconosciuto nel diritto internazionale positivo. Vi è poi un limite più generale che sarebbe stato violato. Anche qualora si ammettesse la ricorrenza degli estremi della legittima difesa collettiva, infatti, la Russia avrebbe leso comunque il principio della proporzionalità: per difendere due regioni separatiste, avrebbe scelto di invadere e attaccare l’intero territorio ucraino. Infine, l’Ucraina, oltre a difendersi, si è appellata al sistema giudiziario internazionale: la Corte europea dei diritti dell’uomo e la Corte internazionale di giustizia dell’Aja hanno già intimato alla Russia di interrompere l’intervento militare; la Corte penale internazionale si sta muovendo per indagare sull’eventuale perpetrazione di crimini di guerra e contro l’umanità. Sono prove di vitalità di un ordinamento che a volte viene descritto come del tutto impotente. Ovviamente anche la giustizia internazionale ha i suoi tempi.
Quale la possibile soluzione?
La via diplomatica. Ogni guerra termina con un accordo. La Russia sta cercando di avanzare militarmente per sedersi al tavolo dei negoziati da una posizione di forza. L’Ucraina tenta di resistere il più a lungo possibile. Putin chiede la neutralizzazione e la smilitarizzazione dell’Ucraina e il riconoscimento da parte della comunità internazionale dell’annessione della Crimea e dell’indipendenza delle due “repubbliche” del Donbass. Zelensky ha dichiarato che l’adesione alla Nato non è più un obiettivo politico. Ma su eventuali concessioni territoriali, ci sono precisi paletti imposti dal diritto internazionale anche all’esercizio del consenso da parte di uno Stato. Il consenso non può giustificare violazioni di norme fondamentali dell’ordinamento internazionale, come il divieto di imporre modifiche dei confini statali internazionalmente riconosciuti con l’uso della forza militare. Non escludo tuttavia che una qualche soluzione possa arrivare dall’attività di mediazione svolta in questi giorni da diversi governi oppure dall’ONU, tramite un compromesso tra le parti in causa. Perché il mantenimento della pace e della sicurezza è il valore fondante della nascita delle Nazioni Unite. La speranza è che questo accordo possa essere raggiunto il più rapidamente possibile, nell’interesse delle popolazioni e della sicurezza internazionale.