Il lavoro in remoto tende a trasformare in modo irreversibile il ruolo del lavoratore dipendente? Se si in quali forme? E come cambia il ruolo del sindacato nelle relazioni industriali? A queste e altre domande cercheremo una risposta con l’aiuto della professoressa Valentina Pacetti, sociologa del lavoro nel nostro Ateneo: in questa terza tappa del percorso che abbiamo intrapreso affronteremo l’argomento dal punto di vista di chi lavora.
Quali sono gli aspetti salienti emersi dalla vostra indagine?
Partiamo dalla constatazione che di base i lavoratori vogliono lavorare in remoto (sin dalle primissime rilevazioni, la quota di coloro che volevano tornare a lavorare esclusivamente in presenza era di poco superiore al 10%), anzi come abbiamo visto i giovani in modo particolare lo considerano alla stregua di un benefit. I motivi sono molti e in parte intuitivi: si va dalla possibilità di evitare il pendolarismo almeno per una parte della settimana, alla possibilità di seguire di più figli o genitori anziani, fino alla flessibilità che permette di ritagliarsi del tempo per andare in palestra o svolgere altre attività sia di cura che ricreative.
Purtroppo dai dati che abbiamo a nostra disposizione questo cambiamento avviene sempre nel solco di un sistema tradizionale, cioè con la riconferma del modello di divisione dei compiti di cura all’interno del nucleo familiare, che in Italia è quasi esclusivamente affidato alle donne. Questo è un aspetto della nostra indagine di cui si sono occupate, ad esempio, Anne-Iris Romens, Sara Recchi e Gemma Scalise. Diciamo che al di là della conferma dei tradizionali stereotipi di genere, esiste il rischio concreto che il lavoro da remoto possa essere utilizzato come sostituto del welfare: pensiamo per esempio ad una coppia che invece di mandare il bambino al nido sceglie di lavorare da remoto e il figlio lo tiene a casa. Questo ovviamente fa venir meno l’esigenza di offrire dei servizi universali e scarica sui singoli le responsabilità di cura. Si tratta peraltro di forma di conciliazione disponibile solo per una porzione limitata della popolazione, perché il lavoro da remoto riguarda comunque solo attività impiegatizie e tendenzialmente ad alto contenuto di conoscenza, mentre rimane inaccessibile per molte altre mansioni.
Parlavamo nella parte introduttiva di porosità dei tempi, cosa intende con questa espressione?
Quando si lavora da remoto, non è più chiaramente delimitato il tempo che dedichiamo al lavoro da quello dedicato ad altre attività, in particolare alla famiglia. Le une e le altre attività si intrecciano e si sovrappongono nel corso della giornata: per esempio nel corso di una riunione posso essere interrotto da un’esigenza domestica, ma mentre mi dedico alla famiglia non esito a rispondere a mail o telefonate; posso sospendere il lavoro per andare a prendere i figli a scuola, ma mi sento poi tenuto a recuperare questo tempo la sera dimenticando il termine normale dell’orario lavorativo; resto al computer mentre i bambini fanno i compiti o mangiano; mi interrompo magari per caricare la lavatrice, ma mentre lo faccio non smetto di pensare a come devo rispondere ad una mail di lavoro…
La responsabilità di tenere separate le attività ricade sul singolo, quindi probabilmente questo comporta un aumento della pressione e dello stress. È capitato che qualcuno degli intervistati ci abbia detto - magari scherzosamente - che era contento nei giorni in cui andava in ufficio perché così poteva finalmente “riposarsi”, nel senso di dedicarsi ad una attività soltanto.
In tutto questo cosa avviene sul fronte delle tutele sindacali, come si pone il sindacato?
Il sindacato si è trovato in una situazione in parte contraddittoria: da un lato deve portare avanti l’istanza che proviene dal mondo del lavoro di stipulare accordi che permettano di accedere ai benefici del lavoro da remoto, dall’altro c’è la consapevolezza da parte sindacale del venir meno di certi diritti, per fare un esempio il rispetto dell’orario di otto ore.
Poi c’è da considerare che, come può venir meno il senso di appartenenza all’azienda, così diventa più difficile organizzare i lavoratori che sono in parte in presenza e in parte a casa. Viene meno il senso della condivisione, del collettivo. D’altra parte è vero che attraverso la comunicazione da remoto è possibile riprendere i contatti con una categoria come quella impiegatizia che per tradizione non è mai stata particolarmente sindacalizzata e quindi per queste persone il sindacato può tornare ad essere un interlocutore.
Quando abbiamo approfondito il tema delle relazioni industriali e della contrattazione è emerso un altro aspetto che è emblematico di un’ambivalenza di fondo: da un lato la partecipazione alle assemblee sindacali è aumentata quantitativamente, dall’altro lato è una forma di partecipazione più passiva, pochi prendono la parola. Non solo, molti di questi lavoratori, pur godendo del permesso retribuito per partecipare all’assemblea, spesso la ascoltano ma mentre continuano a lavorare; anche in questo caso c’è una porosità dei tempi e un’ambivalenza di fondo che presenta opportunità ma anche rischi.