Una ragazza vomita cuori, una bimba perde il palloncino, un manifestante armato di fiori… e tante altre immagini divenute iconiche. Tanto bianco e nero (o meglio: tanto nero) e dettagli rossi, lo stile inconfondibile di un grande artista dei nostri giorni, la cui identità rimane un mistero: Banksy.
A Milano, il Museo delle Culture ospiterà (dal 20 novembre 2018 al 24 marzo 2019) una mostra con molte opere di quello che forse è il più famoso street artist di sempre. Forse nessuno ha mai pensato ci fosse qualcosa di negativo in questa iniziativa, almeno fino al 16 agosto, quando lo stesso artista tramite il suo account instagram ha criticato una analoga mostra (in Russia) realizzata a sua insaputa.
Per cercare di dare un senso a quanto sta accadendo abbiamo posto qualche domanda ad Alessandra De Nicola, assegnista di ricerca Bicocca presso il BIPAC (Centro interdipartimentale di ricerca sul patrimonio storico artistico e culturale)
La street art non ha mai avuto vita facile: spesso si tratta di opere “controcorrente”, realizzate abusivamente e osteggiate da molti critici. Qual è oggi l’atteggiamento (anche a livello accademico) nei suoi confronti?
Partiamo da un presupposto: quella che comunemente viene chiamata street art, ma anche arte urbana, writing, graffiti o ancora muralismo, non è altro che una delle espressioni, probabilmente la più illegale, della cultura HIP HOP. Si tratta di un movimento di contro cultura, che si è incredibilmente sviluppato a livello mondiale a partire dagli anni 70 circa del secolo scorso, quando i mezzi di comunicazione erano ben lontani da quelli di oggi. Rapper, Dj, B-Boyer (più noti come break dancer) e ultimamente i beat-boxer hanno trovato in questa forma di espressione il modo per rispondere a un disagio sociale e talvolta economico. Si tratta di una cultura che trae le sue origini da quella jamaicana e nordafricana per trovare il suo primo terreno di sviluppo a New York. Una cultura basata su atti di ribellione allo status quo principalmente di tipo commerciale. Fino alla più recente contemporaneità, il percorso artistico di un giovane aderente a questo movimento partiva da interventi sui vagoni dei treni della metropolitana e trovava la sua forma più compiuta sui muri; si iniziava con le tag (le scritte veloci, di solito a pennarello) e si arrivava ai murales.
Finché gli artisti non hanno trovato l’interesse dei collezionisti, la loro arte era (e non dimentichiamolo, lo è tuttora) un atto illecito, il più delle volte ai danni del patrimonio pubblico. Così, la dimensione illegale determina la necessità dell’anonimato e dello stare con i propri solidali escludendo tutto ciò che non sia, appunto, underground. Una delle evidenze che riguardano questo fenomeno culturale è che nel giro di poco tempo si è creata un’enorme frattura tra gli artisti che nel tempo sono stati riconosciuti dal circuito ufficiale dell’arte e quelli che continuano ad essere definiti come dei devastatori del patrimonio pubblico. Il passaggio da criminale ad artista non escluse che si mantenga un rapporto di diffidenza verso le istituzioni culturali. Tutt’oggi, alla luce della uscita dal ghetto del movimento, le mostre e le pubblicazioni sono principalmente ad opera dei collezionisti o degli artisti stessi. Questo perché per costituzione gli artisti di questo movimento, continuano a diffidare di tutto ciò che sia decodificabile in atteggiamenti istituzionalizzati. Non dimentichiamo che uno dei primi atti di Banksy, che ha guadagnato un’eco globale, fu la dissacrazione delle sale della Tate Britain. Questo tipo di arte piace, parla a tutti e per questo ben rappresenta la realtà, probabilmente perché nasce in opposizione alle regole del mercato, cercando di manifestare il più possibile un’autentica volontà di riscatto sociale in opposizione alle altre tendenze del contemporaneo. La sfida che si sta risolvendo in questo tempo è quella di riuscire a dare una giusta qualità scientifica ad un movimento che è già un capitolo importante nella storia dell’arte contemporanea.
I social network, spesso basati sull’uso e la condivisione delle immagini, hanno fatto in qualche modo da megafono alla streetart. Pensi che possa esser mutato il senso di questa forma di arte, insieme alla sua modalità di fruizione?
Decisamente! Preparando un intervento per il corso di Educazione all’immagine dello scorso anno con Bo130 e Microbo, una coppia di artisti della vecchia scuola, è emerso che l’argomento più apprezzato sui social, subito dopo i famigerati “gattini”, è la street art. Se prima il discrimine tra “un imbratta muri” e un artista era definito dal riconoscimento del talento all’interno di una comunità radicata capillarmente a livello globale, ora chiunque posta immagini del suo lavoro, senza essere realmente parte di qualcosa. Così uno degli indici attraverso cui vengono quotate le opere è il numero di follower. La cosa più spiacevole è che questi artisti hanno lavorato sodo per evolvere dalla loro condizioni di devastatori, per poter vivere legalmente della loro arte. Oggi le nuove leve a caccia di successo facile, ne è un buon esempio il film Exit Through the gift shop (2010 regia di Banksy), sono disposti a diffondere opere for free solo per il momento di gloria e spesso a discapito della qualità del lavoro e della solidarietà tra membri di una comunità.
Nonostante l’apprezzamento (probabilmente sincero) delle opere da parte degli organizzatori delle mostre, la querelle Banksy è forse indice di uno scarso rispetto nei confronti degli artisti?
A mio parere Banksy, attraverso il suo successo, ha fatto molto per emancipare il movimento, portando con il suo lavoro elementi di critica utili a capire meglio di cosa stiamo parlando. Credo sia normale che voglia difendere il suo lavoro, cercando di impedire ad altri di lucrarci sopra. La situazione è molto complessa e spesso densa di contraddizioni. Se superiamo per un momento il tema dell’illegalità, potremmo osservare il fenomeno ascrivendolo alla categoria di arte pubblica, cosa che in certi versi è stata fatta, ma non sempre nella stessa direzione. Per esempio noi siamo a Milano in Bicocca, chi arriva qui con il treno da fuori Milano vedrà il murale commissionato dal Pirelli Hangar Bicocca ad Osgemeos, oppure l’opera di Borondo e Tresoldi in piazzetta Difesa delle Donne commissionata dalla Galleria WunderKammer. La commissione prevede che ci sia una regolare prestazione d’opera/ingegno con relativa regolamentazione dei diritti d’autore, etc. Nel mentre il Comune di Milano ha messo a disposizione degli spazi pubblici da destinarsi a murali, però senza compenso e senza una selezione critica. Già qui osserviamo una discrasia, se poi aggiungiamo (tornando al tema dell’illegalità) che chi viene colto a dipingere su spazi non autorizzati rischia l’incriminazione per associazione a delinquere, la confusione aumenta.
Poi c’è il tema dei murali che nel tempo hanno acquistato valore. Si pensi all’episodio di Bologna in cui Genus Bononiae, un’istituzione culturale, senza il consenso degli artisti, aveva provveduto allo strappo delle opere più quotate per esibirle successivamente in una mostra a Palazzo Piepoli. In quell’occasione BLU si oppose cancellando tutte le opere che aveva realizzato nel corso di vent’anni. Su questo tema suggerisco la visione del film Saving Bansky (2014 regia di Colin Day) che racconta, dal punto di vista di un collezionista, un episodio analogo accaduto a San Francisco su un lavoro di Banksy.
Hai qualche suggerimento da darci per aiutarci ad apprezzare meglio le opere di Banksy e della street art (siano esse in strada o nei musei)?
La prima cosa che consiglierei è la visione dei film su citati, a cui aggiungerei due titoli oramai storici Wild Style, 1982 regia di Charlie Ahearn e Style wars, 1983 regia di Tony Silver http://www.stylewars.com/site/ e la lettura di un testo condiviso da tutti i membri del movimento: Subway art di Marta Cooper e Henry Chalfant 1984 Thames &Hudson a questo aggiungerei la lettura del best seller No logo, di Naomi Klein ( varie edizioni)
Foto: Banksy - Sweep at Hoxton (Szater, wikipedia)