Da Goya a Van Gogh, ma anche Monet fino al più recente Cattelan, sono davvero molte le opere d’arte prese di mira dagli attivisti per il clima negli ultimi mesi.
Una nuova forma di protesta per la difesa dell’ambiente, che si è diffusa nelle principali città europee.
“Il nostro non è vandalismo, ma il grido di allarme di cittadini disperati che non si rassegnano ad andare incontro alla distruzione del Pianeta e, con esso, della propria vita”- dichiarano gli attivisti contro il clima “Non ce ne faremo nulla dell’arte e dei capolavori su un pianeta che brucia. Servirà a poco la bellezza quando non avremo acqua né cibo”.
Approfondiamo il tema con la professoressa Carmen Leccardi, emerita di Sociologia della cultura presso il Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale dell’Università di Milano-Bicocca.
Nelle scorse settimane, a Milano, gli attivisti di Ultima Generazione hanno messo in campo una serie di azioni di protesta per il clima prendendo di mira le opere d’arte. Cosa ne pensa dunque di queste nuove forme di contestazione giovanile?
È fondamentale partire dalla considerazione che epoche storiche e periodi differenti utilizzano forme di protesta diverse. Forme così eclatanti sicuramente non sarebbero potute esistere, ad esempio, all’interno del movimento del Sessantotto. In quel periodo storico la speranza del cambiamento era assolutamente prevalente; il contrario della disillusione – in un certo senso anche della disperazione – che caratterizza l'attuale fase storica.
A mio giudizio, una chiave di lettura per capire le forme di protesta odierna ha certamente a che fare con il tema del tempo. Perché i musei e i luoghi dell’arte presi di mira dagli attivisti per il clima racchiudono opere immortali, e dunque senza tempo. La protesta riguarda infatti l’impossibilità di accettare la fine del tempo che la distruzione del pianeta a cui la crisi climatica rinvia porta inevitabilmente con sé. Sul piano simbolico, versare della vernice sui vetri che proteggono questi capolavori dell’umanità, o altre forme di protesta inusuali (come incollare le proprie mani a questi vetri) richiamano l’impossibilità stessa della creazione artistica in un universo che va verso l’auto-distruzione. Si protesta in questo modo anche contro l’ideologia del produttivismo a tutti i costi, e l'indifferenza etica che lo guida. La battaglia contro le diseguaglianze sociali sempre più forti si intreccia dunque a quella per la salvaguardia del pianeta e del vivente, umano e non umano, che esso esprime. E questo, va sottolineato, ignorando gli appelli sempre più drammatici della scienza. Dunque, se mai prima ci siamo trovati di fronte a forme di protesta così particolari come quelle odierne, occorre anzitutto riflettere sul particolare periodo sociale e storico a cui esse sono collegate.
Quando gruppi come Extinction Rebellion o Ultima Generazione realizzano proteste di questo tipo esprimono la determinazione delle generazioni più giovani ad opporsi a forme di sfruttamento delle risorse del pianeta ad esclusivo fine di lucro.
Il tema della crisi ambientale è davvero urgente, capace di bloccare le aspirazioni e le speranze di coloro che entrano nella vita sociale e per questo molto sentito dai Millenials e post Millenials. Non necessariamente le proteste del climattivismo sono così estreme -.o devono essere estreme. Un movimento come Fridays for Future, ad esempio, da diversi anni porta avanti forme di protesta meno clamorose ed eclatanti, ma non meno efficaci. Di tanto in tanto, ad ogni modo, anche questo movimento si affida a mobilitazioni che non esiterei a definire a loro volta clamorose. E’ accaduto ad esempio nel mese di gennaio di quest’anno, in Germania. Il governo tedesco ha deciso l’espansione di una miniera di carbone a cielo aperto – complice la crisi energetica generata dall’invasione russa dell’Ucraina - e ragazze e ragazzi di FFF si sono opposte/i occupando il terreno e facendosi ‘portare via’ dalla polizia (Greta Thunberg inclusa). Due villaggi dovranno essere rasi al suolo per procedere alla realizzazione di questa operazione.
In questa fase storica in cui l’equilibrio geopolitico del pianeta è particolarmente critico, quello che noi adulti dovremmo forse chiederci è se davvero preferiremmo che le nuove generazioni fossero più “silenziose". La loro voce, le loro lotte, credo, sono preziose perché ci impediscono di prendere sonno – un sonno che potrebbe essere letale.
Il Louvre di Parigi, la National Gallery a Londra, il Museo del 900 a Milano, gli Uffizi a Firenze. Questi sono solo alcuni dei luoghi presi di mira durante le recenti proteste per il clima. Ma non c’è alcun collegamento diretto con il tema stesso della protesta. Che rapporto c'è quindi per questi giovani attivisti tra il mezzo e il fine?
Sicuramente, come già accennato, il focus sta proprio nel simbolismo stesso delle forme di protesta. Le opere d’arte patrimonio dell’umanità, infatti, sono sempre protette da vetri e chiaramente con queste azioni non c’è una reale volontà di danneggiare l’opera d’arte in quanto tale. Piuttosto, azioni quali lanciare vernice, incatenarsi alle opere, attaccare i musei si propongono, a mio parere, un obiettivo specifico. Fin qui i grandi artisti espressi dalla storia hanno lavorato per mettere a disposizione dell’umanità le proprie straordinarie abilità, per lasciare nella memoria collettiva il segno della bellezza immortale. Le opere d’arte prese di mira rappresentano infatti la possibilità di bypassare i limiti del tempo. Van Gogh, Klimt, Goya, Botticelli, Monet …sono tutte chiaramente opere senza tempo.
Ma se la catastrofe climatica verso la quale siamo avviati contiene il messaggio della distruzione, dell’impossibilità della continuazione della vita sul nostro pianeta, allora anche le opere d’arte, e la possibilità stessa dell’espressione artistica è messa in forse. Alla luce di queste considerazioni atti estremi ed apparentemente insensati come quelli di cui stiamo discutendo possono rappresentare forme di provocazione non del tutto assurde.
Le emissioni di gas serra sembrano impossibili da contenere, il riscaldamento della superficie terrestre in parallelo. Non si tratta, purtroppo, di questioni astratte. Gli eventi climatici estremi sono uno degli indicatori di questo squilibrio; anche il nostro paese, l’Italia, sempre più spesso è coinvolto direttamente in questo processo distruttivo. Pensiamo ad esempio a tutte le difficoltà e i problemi che il caldo torrido della scorsa estate, e la mancanza di piogge, ha provocato in una città come Milano – così come nel resto dell’Italia e dell’Europa, per restare in questo emisfero. Siamo esseri umani, il nostro corpo e la nostra mente vivono in stretta dipendenza con l’ambiente e dunque con il pianeta, i suoi ritmi, i suoi cicli. Se il pianeta perde la propria armonia, anche noi inevitabilmente la perdiamo. Forse spesso ci dimentichiamo di questo aspetto, o comunque non ci riflettiamo sopra a sufficienza. Si tratta invece di un aspetto strategico. Se Gaia è in armonia anche il vivente, umano e non umano, lo è. Il nostro ben-essere è collegato, è il suo.
Tornando più specificamente alla domanda da cui siamo partiti, è chiaro che in questo scenario c’è una forte correlazione tra il fine ultimo dell’azione degli attivisti per il clima e i mezzi attraverso i quali la loro azione viene perseguita. In gioco oggi c’è l’urgenza di arrestare questa deriva che porta dritta verso la distruzione. Attraverso queste forme di lotta, quindi, ragazze e ragazzi esprimono il loro tentativo di opporsi alla fine del pianeta, dunque anche alla fine della vita stessa.
Gli stessi nomi scelti da questi gruppi di attivisti ambientalisti dovrebbero indurci alla riflessione: Extinction Rebellion (Ribellione all’estinzione), Ultima generazione… per citare alcuni tra i più noti. Quando non compare direttamente l’evocazione della fine, della vita e del tempo, è il tema del futuro a presentarsi. Ad esempio, per Fridays for Future, il gruppo meno implicato nelle azioni eclatanti di cui stiamo discutendo, più aperto alla possibilità del cambiamento, alla speranza, la relazione con il tempo è comunque presente, anche se qui declinata in positivo. Costruire un futuro diverso, nonostante tutto, è ancora possibile, ed è il cuore del suo messaggio. In sostanza, per comprendere veramente queste forme di protesta dobbiamo prima di tutto capire che cosa sta succedendo intorno a noi.
Professoressa Leccardi, ha ancora senso oggi usare forme di protesta così controverse?
Il vero punto della questione, in realtà, non sono queste forme di protesta, ma gli obiettivi a cui queste azioni sono dirette. Gli/le attiviste per il clima domandano, per loro tramite, risposte concrete dai governi, dai politici, dalle istituzioni.
In passato la mediazione tra le forme di protesta di movimento e la loro espressione istituzionale è stata garantita - almeno idealmente - in primo luogo dai partiti politici. La crisi contemporanea di questi ultimi asciuga le radici stesse di tale possibilità. Se è vero che la giustizia climatica va oggi considerata espressione della giustizia sociale in senso lato, allora altre istituzioni devono farsi carico di questa mediazione. A partire, a mio giudizio, da quelle formative, per definizione espressione dell’approccio scientifico alla vita.
In concreto questo significa che “per risolvere il problema dobbiamo prima comprenderlo” (come scrive Greta Thunberg in ‘The Climate Book’, pubblicato in italiano nel 2022). Le istituzioni di alta formazione come le università giocano dunque un ruolo strategico a questo livello. Sono i dati scientifici relativi al riscaldamento globale e alla crisi ambientale in generale a confermare che il pianeta non è più in grado di tollerare questa situazione. Il tema della transizione energetica è cruciale, così come quello di un modello di sviluppo in sintonia con la “lingua del pianeta”. La protezione della biodiversità, i danni irreversibili della deforestazione, lo smaltimento delle plastiche (le cosiddette microplastiche in particolare), il rapporto tra salute umana e salute del pianeta, e in generale l’analisi delle interdipendenze all’interno del sistema Gaia sono altrettanti aspetti di una medesima realtà. Una realtà che richiede una crescita di consapevolezza collettiva in tempi strettissimi.
In sostanza, i movimenti ambientalisti e le loro dinamiche, incluse le forme di mobilitazione, sono molto diversi dal passato perché diversa è la posta in gioco.
Le migrazioni, le risorse decrescenti di gran parte della popolazione mondiale di contro alla crescita di ricchezza di una superminoranza sono, direttamente o indirettamente, collegate alla lotta per la sopravvivenza nel nuovo regime climatico.
Vorrei anche ricordare qui il cosiddetto ‘paradosso dell’incertezza’ in relazione al climattivismo. Le nuove generazioni sono cresciute confrontandosi quotidianamente con il tema dell’incertezza. Sul piano sociale e esistenziale l’incertezza permea le loro vite: dal lavoro alle relazioni affettive alla mobilità territoriale, dall’identità personale a quella sociale le ultime generazioni devono confrontarsi con l’assenza di approdi sicuri. Paradossalmente, in questo paesaggio connotato dall’incertezza la sola certezza inconfutabile, sulla base dei rilievi scientifici, è la minaccia alla vita del e sul pianeta. Da qui anche, io credo, la scelta di modalità di protesta estreme.
In questo quadro minaccioso noi adulti che non siamo attivisti, non siamo politici, ma semplici cittadini e cittadine, magari anche indignati/e di fronte a questi attacchi all’arte, anziché giudicare questi gruppi come “nemici della democrazia” dovremmo forse prima di tutto domandarci cosa stiamo facendo di concreto per salvare il pianeta, e dunque anche le nostre vite.
Come sono cambiate negli ultimi anni le forme di protesta e attivismo giovanile?
Se pensiamo all’Italia, negli ultimi decenni del Novecento ci sono stati diversi movimenti capaci di segnare in profondità il clima culturale. Accanto al movimento operaio e alle sue lotte il movimento del Sessantotto, quello femminista, il movimento del Settantasette hanno indubbiamente - tra gli altri effetti - modernizzato l’Italia. Accompagnando la nostra espansione economica (e le sue crisi), ma anche democratica e culturale. Durante la ‘stagione dei movimenti’, come è stata chiamata, le lotte si esprimevano attraverso manifestazioni di piazza, sit-in e così via. Forme di lotta tradizionali, diremmo oggi. In quell’epoca, tuttavia, considerate forme eversive tout-court.
Tra l'inizio degli anni Ottanta e la fine del secolo l’attenzione si è poi spostata sul cosiddetto fenomeno del riflusso, ovvero una chiusura nel privato che in realtà si è rivelata più apparente che effettiva. E’ stato infatti rimesso in discussione il rapporto tra quello che è considerato ‘privato’ e ciò che era, almeno fin lì, considerato ‘politico’. Il grande tema dei diritti, a partire dall’espressione ad esempio di una sessualità auto-determinata, è balzato al centro della scena pubblica; così è stato, in parallelo, per i rapporti tra donne e uomini. L’area del ‘politico’ si è via via estesa - fino ad includere, oggi, l’intero pianeta e la sua cura. E’ necessario riflettere anche su questi aspetti per comprendere ciò che sta accadendo nelle forme di protesta.
Con l’inizio del secolo, e con l’accentuazione delle diseguaglianze sociali, ci sono state anche in questo caso nuove forme di lotta e di mobilitazione, spesso e volentieri messe in campo da piccoli collettivi. Ma anche accompagnati, di volta in volta, da grandi mobilitazioni di massa – si pensi ad esempio agli indignados spagnoli (e ai loro ‘accampamenti). Così è accaduto anche per il femminismo del nuovo secolo, che ha via via costruito forme di lotta inedite (si pensi, per fare un esempio, allo ‘sciopero delle donne dell'8 Marzo). Accanto a forme forse meno visibili, ma certo non meno importanti sul piano quotidiano. In questo nuovo contesto sociale e politico, individuale e collettivo si rimescolano e si ridefiniscono. L’espressione di sé, delle proprie capacità e competenze, ma anche dei propri bisogni e sentimenti diventa sempre più terreno di lotta e di mobilitazione.
Fino ad arrivare ai giorni nostri, e alla recente pandemia. Che ha accentuato la sensazione di incontrollabilità del mondo. Ma, allo stesso tempo, ha fatto nascere, non solo in Italia, diverse azioni di solidarietà e di sostegno - nel quartiere, nell’isolato, nel singolo caseggiato -a favore di coloro che sono apparsi socialmente meno forti ed attrezzati. Non solo sotto il profilo economico, ma anche, ad esempio, per ragioni di salute, per capitale sociale e culturale, e così via.
In sostanza, è bene a mio giudizio comprendere che le lotte per la giustizia climatica sono strettamente imparentate alle numerose forme di azione collettiva diventate particolarmente visibili nel nuovo secolo, per lo più intrecciate alla crescente centralità dei processi di individualizzazione (come qualche anno fa abbiamo scritto, con Paolo Volonté, nel libro Un nuovo individualismo?) L’approccio dei movimenti per la giustizia climatica rappresenta dunque non un’anomalia, ma un’espressione dei movimenti sociali del nostro tempo.
Questo recente fenomeno è in qualche modo riconducibile anche alla "cancel culture"?
Non credo che questo tipo di proteste possa essere legato alla cancel culture e alle sue dinamiche. Qui non è in gioco il passato ‘bianco’ del potere nel mondo, e le sue espressioni che perdurano. Penso invece ad un diverso quadro, a richieste dirette in primo luogo alle istituzioni, ma anche a tutti noi, affinché venga assunta la responsabilità che a ciascuno/a compete. Possiamo ancora cambiare la situazione, ma il tempo rimasto è davvero pochissimo. E’ necessario uscire dal letargo. A mio parere, la forza delle azioni di protesta contro le opere d’arte si basa proprio su questo simbolismo potente legato al tempo che scorre, e ci porta non verso il progresso, ma sempre più verso la distruzione.