Baby gang, risse in piazza, movida fuori controllo. Nelle ultime settimane a Milano ci sono stati diversi episodi che hanno causato problemi di ordine pubblico e di sicurezza sociale, con protagonisti giovani e adolescenti.
Qualcuno ha parlato del ritorno del fenomeno delle baby gang, qualcuno rispolvera l’annoso problema delle periferie, altri invece considerano questo fenomeno in maniera più estesa, come malessere della generazione zeta.
Abbiamo cercato di capire meglio questi fenomeni con la professoressa Carmen Leccardi, emerita di Sociologia della cultura del dipartimento di Sociologia e ricerca sociale dell’Università di Milano-Bicocca.
Professoressa Leccardi qual è la fenomenologia alla base di questi comportamenti?
Dal mio punto di vista, di persona che ormai da molti anni studia, riflette e conduce anche ricerche empiriche sulle esperienze di vita, e sulle culture, di adolescenti e giovani, ragazzi e ragazze, quando si discute di comportamenti collettivi giovanili occorre in primo luogo evitare di cadere in quello stato d’animo che il sociologo inglese Stanley Cohen ha definito ‘panico morale’.
Cohen ha utilizzato questo termine in uno studio degli anni Settanta dello scorso secolo in particolare per fare riferimento agli scontri tra Mods e Rockers, due gruppi subculturali inglesi in quegli anni al centro dell’attenzione pubblica. Di fatto queste ostilità, che di tanto in tanto potevano trasformarsi anche in vere e proprie battaglie di strada, oggi sono ricordate quasi esclusivamente da coloro che studiano le espressioni culturali/le sub-culture dei giovani, in Europa e negli Stati Uniti, nel periodo che compreso tra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta (ma in Italia sono arrivate un decennio dopo).
Chi si occupa di questi fenomeni ricorda ad esempio, in questa chiave, i cosiddetti ‘blusons noirs’ francesi - o, più spesso, i ‘teddy boys’ inglesi. Per entrambe queste sub-culture la colonna sonora era il rock’n’roll. Negli anni Cinquanta/Sessanta intorno a questi gruppi di giovani e alle loro manifestazioni, talvolta violente, si sono sviluppate nell’opinione pubblica vere e proprie ondate di ‘panico morale’, per dirla appunto con Stanley Cohen.
Questo preambolo quindi per sottolineare anzitutto l’importanza di evitare di cadere in processi di etichettamento - in chiave di devianza e di ‘problema sociale’, anticamera del panico morale - di fenomeni tra loro anche molto diversi. Non tutti i gruppi di strada giovanili devono essere infatti considerati alla stregua di gang; non tutti i rapper vanno considerati soggetti pronti alla violenza. E certamente la vita notturna, di cui il termine movida è diventato sinonimo, non implica in quanto tale comportamenti devianti. Con questo non ritengo certamente accettabili, o tollerabili, azioni violente esercitate da singoli o da gruppi di adolescenti. Intendo piuttosto sottolineare la necessità di analizzare e studiare con attenzione ogni singolo fenomeno collettivo giovanile, evitando generalizzazioni.
Possiamo ancora parlare di “problema delle periferie” o è un concetto ormai superato?
Purtroppo, pensando in generale alla struttura della maggior parte delle grandi città europee (per ragionare qui in riferimento all’Europa), la cosiddetta ‘questione delle periferie’ sembra tutt’altro che superata. Considerando poi più nello specifico l’Italia, e in particolare i giovani migrati di seconda, e talvolta terza, generazione che popolano le nostre periferie, emerge con grande evidenza la mancanza di modelli di integrazione. A mio giudizio solo questi ultimi, trasformati grazie anche all’educativa di strada in pratiche quotidiane di inclusione, possono evitare la trasformazione delle periferie in puri e semplici spazi di segregazione. Se abbiamo ben chiaro questo sfondo, allora anche i singoli episodi di cronaca - come quelli che negli ultimi mesi hanno coinvolto a Milano il quartiere San Siro e una parte dei suoi giovani abitanti - possono essere interpretati non semplicemente come episodi da collocare in una cornice di ordine pubblico.
Piuttosto impongono una riflessione sull’incapacità delle istituzioni pubbliche di offrire agli adolescenti e ai giovani dei quartieri periferici luoghi di incontro e aggregazione in grado di avviare dinamiche inclusive.
I linguaggi artistici e creativi, come sanno bene coloro che con i giovani interagiscono quotidianamente, possono essere straordinari strumenti di inclusione. Ma può anche accadere che la musica faccia leva sull’esclusione per diventare veicolo di identità collettiva. È quanto accade oggi al rap, la musica delle periferie. Il rap, in tal senso, può essere considerato l’emblema del rovesciamento di una condizione di stigma e marginalità, alle periferie legata a doppio filo, in uno strumento della mitologizzazione di queste ultime. Questo accade, come bene mettono in luce le ricerche, a Milano come a Torino, a Barcellona come a Marsiglia. A tale processo, e al rapporto tra giovani, rap e periferie è dedicato l’ultimo numero, del dicembre 2021, della rivista “Tracce urbane”, a cura di Paolo Grassi e José Sanchez-Garcia, a cui rimando per ulteriori approfondimenti.
C'è un nesso tra il periodo storico che stiamo vivendo e il disagio giovanile?
La ‘crisi del futuro’ in cui siamo immersi in questo periodo storico rende la vita di tutti, giovani e meno giovani, decisamente problematica. Non che gli adulti, mi sembra, se la cavino troppo bene.
Ma è soprattutto ai giovani che il mondo sociale fa continue richieste: nonostante il paesaggio nebbioso che li circonda devono avere le idee chiare su ciò che vogliono fare (e essere) in là nel tempo. Devono dunque sapere costruire progetti pur all’interno della diffusa incertezza sociale che costituisce la cifra del nostro tempo. Su questa base devono sapere praticare (in silenzio, ma non per questo in modo meno potente) la nuova virtù giovanile del ventunesimo secolo: l’ormai famosa ‘resilienza’.
La pandemia che ha occupato, manu militari, il quotidiano non solo dei più giovani, per questi ultimi tuttavia sembra svolgere funzioni talvolta contraddittorie. In certi casi ha indubbiamente aggravato il disagio giovanile, un disagio certamente preesistente, e indissolubile dalle dinamiche della precarizzazione. In altri casi, ad ogni modo - così emerge dalla parte qualitativa, dedicata ai giovani, della ricerca longitudinale Italian Lives che il Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale sta conducendo da due anni e che si avvia a conclusione - può addirittura costituire un’opportunità per superare il disagio del tempo sociale perennemente accelerato in cui i/le giovani si trovano, loro malgrado, a vivere.