Un italiano a Seul, dove “indossare la mascherina è un imperativo morale” - Bnews Un italiano a Seul, dove “indossare la mascherina è un imperativo morale”

Federico Pianzola, ricercatore dell’Università di Milano-Bicocca, per due anni ha vissuto a Seul, dove si è dedicato a uno studio che mette a confronto coreani e italiani rispetto all’uso dei media digitali per attività legate alla letteratura. Da dicembre scorso è tornato in Italia ma si trovava lì quando, a  gennaio 2020, il Covid-19 cominciava a valicare i confini della Cina.     
Attraverso il suo racconto, uno spaccato di vita da un anno fa ad oggi, abbiamo provato a capire quali sono i motivi che hanno permesso alla Corea del Sud di essere uno dei paesi in grado di contenere meglio l’emergenza sanitaria.

Un anno fa in Italia aveva inizio il primo lockdown. Qual era la situazione in Corea del Sud?

Avendo molti rapporti con la Cina, il virus è stato individuato in Corea del Sud già a fine gennaio. C’erano solo 6 casi confermati e la risposta delle autorità è stata immediata, seguita da quella unita e solidale dei cittadini. A Seul, in metropolitana c’erano annunci a ripetizione in 4 lingue diverse che informavano sulle caratteristiche del virus, su consigli igienici di prevenzione e sui numeri di emergenza da chiamare. Nonostante il numero dei casi sia drasticamente aumentato a febbraio, a causa del comportamento degli appartenenti ad una setta cristiana che si sono incontrati per un funerale e altre celebrazioni, nel Paese non c’è mai stato un vero e proprio lockdown, la metropolitana è sempre stata piena di persone, in una città con 10 milioni abitanti.

Come si è deciso di reagire all’aumento dei casi?

Le università e le scuole sono passate immediatamente alla didattica a distanza. In alcuni periodi bar e ristoranti hanno potuto fare solo asporto, e i locali notturni sono stati chiusi quando sono diventati centri di diffusione del virus. In generale comunque, il numero dei casi è sempre stato bassissimo rispetto a quanto successo in Europa o nelle Americhe.
Il Governo poi ha preso il controllo della distribuzione delle mascherine, garantendo una fornitura costante alle farmacie e limitando le modalità di acquisto: presentando il proprio codice fiscale, in base all’anno di nascita si può acquistare solo in uno specifico giorno della settimana (o nel fine settimana) massimo due mascherine per persona. Il prezzo: circa 1 euro al pezzo.
Inoltre, i dati sulla diffusione del virus sono stati resi pubblicamente accessibili fin da subito. Non solo il numero dei contagi per città, ma anche i loro spostamenti nei 14 giorni precedenti l’infezione, procedendo alla disinfezione di strade, ristoranti e negozi visitati. Sono informazioni che vengono richieste a tutti i pazienti confermati positivi, quelli negativi vengono invece adeguatamente informati sulle misure di prevenzione necessarie per evitare il contagio.

Qual è stato l’atteggiamento del popolo coreano rispetto alla pandemia?

Un fattore determinante credo sia stato il senso di responsabilità sociale dei coreani. In Corea, ma anche in altri Paesi asiatici, indossare una mascherina è pratica comune in molte occasioni, e diventa un imperativo morale quando si è ammalati, anche per un semplice raffreddore. Il motivo: si vuole evitare di contagiare altre persone.
La risposta di molti commercianti è quella di aumentare le distanze fra clienti riconfigurando gli spazi dei locali, se necessario anche rimuovendo alcuni tavoli. La distanza minima è 2 metri, non un metro risicato come vedo in Italia.

Come funziona la sanità?

In Corea la sanità è principalmente gestita da privati, ma tutte le spese di ospedalizzazione, cura e sepoltura dei pazienti Covid-19 sono coperte dallo Stato, eliminando così il deterrente economico che potrebbe portare alcune persone potenzialmente infette a non andare in ospedale per paura dei costi. Più in generale, in qualsiasi clinica è possibile usufruire delle sovvenzioni governative, qualora ci siano, come per gravidanza e parto o per un controllo odontoiatrico annuale.

Come si vive oggi a Seul?

A periodi alterni ci sono aumenti dei contagi, ma mai un lockdown. Chi può lavora in smartworking e le università fanno ancora didattica a distanza, ma le scuole hanno riaperto con tutte le norme di sicurezza del caso.

Sulla gestione della pandemia, c’è qualcosa secondo lei che l’Italia dovrebbe imparare dalla Corea del Sud?

I coreani non sono stati a guardare, ognuno ha fatto la sua parte: ovunque si trovavano erogatori di gel disinfettante, in ogni singolo locale o ascensore pubblico della città; e invece di aspettare un bando e soldi pubblici, uno studente universitario ha creato gratuitamente una app che mostra i luoghi visitati dalle persone contagiate, con indicazione della data (https://coronamap.site). Rappresentare i dati in forma visuale su una mappa è un modo più efficace del fornire semplici numeri per orientare il comportamento delle persone: se vedi che nel tuo quartiere è passata una persona infetta, uscirai di meno e sicuramente eviterai i luoghi in cui è stata. Oltre a Coronamap ne sono state create altre in brevissimo tempo, addirittura con la possibilità di ricevere una notifica se si entra nel raggio di 100 metri di un luogo visitato da una persona infetta.

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