Come si costruisce la giustizia climatica in un’aula universitaria? All’Università di Milano-Bicocca si è tenuto un ciclo di incontri partecipativi intitolato “Peer Parliaments for Climate Justice: Student Dialogues on the Ecological Transition”.
Promossa nell’ambito dell’insegnamento di Sociologia dell’Ambiente (corso di laurea in Sociologia) dalla professoressa Monica Bernardi, Ambassador del Patto Europeo per il Clima, l’iniziativa ha trasformato gli studenti e le studentesse in veri e propri policy-maker per un giorno, chiamati a discutere e deliberare su cinque temi cruciali: urbanizzazione verde, energie rinnovabili, rifugiati climatici, politiche agro-alimentari, ecofemminismo.
Abbiamo intervistato alcuni degli studenti e studentesse che hanno animato i dibattiti, per capire cosa hanno imparato e che idee si sono fatti sulla transizione ecologica.
Urbanizzazione verde
Rocco Mignemi

Rocco, qual è stato l’elemento più innovativo emerso nel vostro Peer Parlament sul tema delle città e dei processi di green urbanism?
Direi la riflessione critica sul ruolo che le logiche economiche neoliberali, e più in generale il capitalismo, giocano nei processi di urbanizzazione – verde o meno. Nonostante le diverse posizioni iniziali (tra chi sosteneva con convinzione l’urbanizzazione verde e chi ne metteva in discussione le fondamenta) il confronto ha permesso di far emergere un nodo comune: molte trasformazioni urbane sono orientate dal profitto, e questo condiziona profondamente il modo in cui le città crescono e si trasformano.
Il vero punto di discussione è stato se il legame tra urbanizzazione e capitalismo sia inevitabile, ma entrambi i gruppi hanno condiviso la necessità di ripensare l’urbanizzazione verde in chiave più equa e consapevole. Ci siamo resi conto che non basta parlare di sostenibilità ambientale, è fondamentale interrogarsi su chi decide, chi partecipa e chi beneficia di questi processi.
Da qui è nata la necessità di pensare a modelli alternativi e inclusivi, come i Community Land Trusts, le politiche abitative redistributive o gli Urban Living Labs, strumenti che permettono alle comunità locali di avere un ruolo attivo e di condividere i benefici del verde urbano.
In sintesi, l’urbanizzazione verde non può prescindere da una riflessione più ampia sulle strutture di potere e sugli interessi economici che la plasmano.
Energie rinnovabili
Irene Briozzo

Irene, che cosa ti ha colpito di più nel confronto tra pari sul tema dell’energia?
Il modo in cui il dibattito ha saputo superare la consueta contrapposizione tra favorevoli e contrari, offrendo una lettura più sfumata e complessa della transizione energetica.
Tra le rinnovabili oggi a disposizione (fotovoltaico e solare termico, geotermico, eolico, idroelettrico, biomassa) abbiamo approfondito alcune Comunità Energetiche Rinnovabili (CER), a partire dalla prima italiana a Magliano Alpi fino ad esperienze più recenti e di stampo solidale, come quella di San Giovanni a Teduccio. Ne abbiamo discusso come esempi concreti di modelli partecipativi capaci di coniugare sostenibilità ambientale ed equità sociale.
Ma in generale mi hanno fatto riflettere alcune criticità sollevate rispetto alle varie forme di energia rinnovabile, spesso presentate come soluzione ideale e alternativa ai combustibili fossili. Pur essendo associate a benefici ambientali, economici e sociali, come la riduzione delle emissioni di gas serra, il contrasto alla povertà energetica e lo sviluppo di comunità energetiche, le rinnovabili non sono esenti da problematiche. È stato interessante, e in parte spiazzante, ascoltare come alcune dinamiche legate allo sviluppo delle rinnovabili possano riprodurre forme di disuguaglianza e di neocolonialismo energetico, con paesi del cosiddetto Primo Mondo che sfruttano risorse e territori del Sud globale, generando impatti ambientali e sociali significativi. Si tratta di un aspetto spesso trascurato nel discorso pubblico, dove prevale una narrazione in cui “il fine giustifica i mezzi”.
Il confronto mi ha aiutata a sviluppare una visione più critica, perché pur riconoscendo i vantaggi delle rinnovabili, credo sia fondamentale affrontare anche i loro limiti, e soprattutto promuovere un approccio alla transizione energetica che tenga insieme sostenibilità ambientale, giustizia sociale e partecipazione democratica.
Rifugiati climatici
Margherita Maria Sole Dore

Margherita, cosa ti ha colpito nel discutere di rifugiati climatici con gli altri studenti? Conoscevano il tema delle migrazioni climatiche?
Il tema dei rifugiati climatici è stato affrontato con una grande ricchezza e complessità di argomentazioni. La struttura stessa del Peer Parliament, che prevedeva la formazione di due gruppi con visioni contrapposte, ha permesso di far emergere prospettive molteplici, talvolta inaspettate
Il gruppo pro ha proposto di considerare la migrazione come possibile opzione per gestire gli impatti del cambiamento climatico, suggerendo strumenti come la protezione internazionale, una rilocazione anticipata e fondi di solidarietà climatica. Al contrario, il gruppo contro ha sollevato importanti obiezioni sulla correttezza del termine “rifugiato climatico”, mostrando i rischi di semplificazione, depoliticizzazione e marginalizzazione presenti nelle narrazioni emergenziali e securitarie. Il dibattito è stato condotto con estrema lucidità e disponibilità nell’ascoltare le posizioni opposte, tenendo ferma la consapevolezza delle proprie argomentazioni.
Grazie al dibattito tenutosi in aula sono emerse diverse consapevolezze: innanzitutto è stato esplicitato come sia necessario affrontare la vulnerabilità, che non si manifesta solo a livello ambientale, ma anche a livello economico e sociale (è stato anche sottolineato come i diversi piani interagiscano tra di loro e si rinforzino).
È stata infine sottolineata la necessità di riconoscere diritti e protezioni a chi è costretto a spostarsi per il clima, consapevolezza emersa anche nel sondaggio condotto alla fine del dibattito, dove la maggioranza degli studenti ha riconosciuto l’esigenza di una tutela giuridica specifica, insieme all’importanza di rafforzare la resilienza dei territori di origine (argomentazione proposta dal gruppo contro). Il dibattito ha permesso di porre la questione dei rifugiati climatici sotto la prospettiva della giustizia climatica, dei rapporti tra il Nord e il Sud del mondo, portando a interrogarsi sulle capacità delle istituzioni di rispondere alle crisi attuali che il cambiamento climatico ci riserva.
Politiche agricole e food
Asia Raguso

Asia, sono emerse proposte dal vostro gruppo per incentivare le filiere dell’ agricoltura e indirizzare le politiche pubbliche locali?
Nel nostro Peer Parliament è emersa con forza la necessità di ripensare il sistema agroalimentare, orientandolo verso modelli più giusti, sostenibili e radicati nei territori.
Abbiamo approfondito sia le pratiche agricole alternative (come l’agricoltura rigenerativa, l’agroecologia e il compostaggio) sia le politiche pubbliche che potrebbero sostenerle concretamente. Tra le proposte discusse: incentivi locali per la filiera corta, sostegno a mercati contadini, promozione di mense scolastiche sostenibili.
Alcuni interventi hanno posto l’accento sulla centralità dell’educazione alimentare, mentre altri hanno richiamato la necessità di una governance più trasparente per evitare fenomeni come il land grabbing e lo sfruttamento del lavoro agricolo, spesso alimentati da soluzioni imposte dall’alto e poco sensibili alle specificità ecologiche e sociali dei territori.
In questo quadro la PAC, la Politica Agricola Comune, è stata discussa come uno strumento potenzialmente determinante per sostenere una transizione del settore agricolo socialmente ed ecologicamente significativa. Tuttavia, ci sono state anche critiche legate alla concentrazione dei sussidi, allo scarso impatto ambientale, alla limitata equità sociale e territoriale, e al fatto di sostenere un modello agroindustriale più che una reale transizione ecologica. È emersa così una riflessione condivisa: gli strumenti legislativi che si adottano vanno pianificati in modo che siano orientati davvero ad una transizione giusta ed efficace. E di transizione giusta si è parlato anche rispetto alla necessità di prevedere compensazioni e percorsi di formazione per chi lavora oggi nei settori più impattanti oltre alla redistribuzione equa dei sussidi agricoli. In sintesi, abbiamo capito che l’agricoltura non è solo produzione di cibo, ma un nodo cruciale di giustizia sociale, identità culturale e sostenibilità ambientale.
Ecofemminismo
Marianna Pennino

Marianna, com’è stato affrontato il legame tra genere e ambiente?
Affrontare il legame tra genere e ambiente si è rivelato un esercizio tanto affascinante quanto complesso. Il nostro obiettivo era adottare un approccio critico, mettendo in luce non solo le potenzialità, ma anche i limiti, soprattutto in chiave di giustizia ambientale.
É stato interessante riflettere sul significato politico, pratico e simbolico del nesso tra donna e natura.
Da una parte un gruppo ha sostenuto che l’ecofemminismo evidenzi il legame tra oppressione di genere e degrado ambientale, proponendo la sussistenza come alternativa sostenibile al modello capitalista-patriarcale. Le donne, soprattutto nei contesti del Sud globale, sono protagoniste di questa resistenza, guidando la transizione verso politiche più giuste, inclusive ed ecologiche.
Sono stati discussi riferimenti teorici come la “logica del dominio” di Karen Warren e l’etica della cura ambientale, così come esempi concreti di attivismo, dal movimento Chipko in India alle battaglie di Vandana Shiva e Leydy Pech per la difesa dei territori e dei diritti delle comunità locali.
Dall’altra parte, il secondo gruppo ha riconosciuto che sebbene il movimento ecofemminista nasca da un’intuizione tanto necessaria quanto potente (il riconoscimento dell’interconnessione tra l’oppressione delle donne e lo sfruttamento ambientale), presenta anche delle sfide teoriche, pratiche e politiche che ne limitano efficacia e inclusività. Alcune correnti del movimento rischiano infatti di proporre una visione essenzialista, che associa le donne alla natura in termini biologici o simbolici, senza affrontare con sufficiente efficacia le cause strutturali delle ingiustizie ambientali, col rischio di rafforzare, invece di decostruire, alcuni stereotipi di genere.
Dal dibattito è quindi emersa con chiarezza l’importanza di adottare un approccio intersezionale, capace di tenere insieme genere, classe, razza, disabilità e tutte le dimensioni strutturali delle disuguaglianze.
Pur partendo da posizioni diverse, il confronto ha portato a una convergenza: riconoscere che l’ecofemminismo può essere una prospettiva utile per leggere e trasformare le crisi ambientali e sociali contemporanee, a condizione che superi semplificazioni teoriche e valorizzi pratiche concrete, dalle campagne di sensibilizzazione alle azioni legali, dalle forme di vigilanza territoriale agli spazi partecipativi che amplifichino le voci delle persone più vulnerabili.
I Peer Parliaments della Bicocca sono stati molto più di un esercizio accademico: sono stati uno spazio politico, dove giovani cittadini e cittadine hanno esercitato il pensiero critico e l’immaginazione collettiva. La professoressa Monica Bernardi, promotrice dell’iniziativa, sottolinea: «Questi dialoghi tra pari sono un laboratorio di cittadinanza climatica attiva, in linea con la visione del Patto europeo per il clima, che riconosce il ruolo cruciale delle comunità locali, di cittadini e cittadine, nella transizione ecologica. Un esempio concreto di educazione alla sostenibilità, che ha messo al centro la partecipazione, il confronto e la co-produzione di idee. Attraverso il metodo della democrazia deliberativa, studenti e studentesse hanno potuto riflettere su come si costruisce una transizione giusta, attenta alle dimensioni ambientali e sociali del cambiamento, diventando consapevoli e capaci di agire nel presente per trasformare il futuro. Credo infatti che l’università debba essere non solo luogo di trasmissione del sapere, ma anche fucina di pratiche democratiche. In dialogo con le sfide delle città e dei territori, può diventare un attore chiave nell’attivazione di processi di transizione sostenibile e giusta, dove la governance si intreccia con la dimensione educativa e trasformativa. In un tempo in cui la crisi climatica interroga profondamente istituzioni e stili di vita, è fondamentale offrire spazi nei quali le nuove generazioni possano sentirsi parte attiva del cambiamento e legittimate a proporre visioni alternative».