di Tiziana Vettor*
Lo sport è fattore composito di molteplici rilevanti funzioni di utilità sociale e personale, di principi e di valori. Da questo punto di vista, esso è anzitutto uno strumento di libertà e di eguaglianza. Tuttavia, la possibilità di accedere all’attività sportiva era in origine riservata solo alle classi agiate, le uniche che potevano permettersi di dedicarvi del tempo, e agli uomini. In effetti, il tratto genetico dell’olimpismo moderno era una forte discriminazione anti-femminile. De Coubertin, fondatore del Comitato Internazionale Olimpico (CIO), non volle altro che maschi a partecipare alle Olimpiadi arrivando addirittura ad affermare che lo sport femminile fosse la cosa più antiestetica che gli occhi umani potessero contemplare.
Il percorso delle donne nello sport è dunque, anzitutto, una storia di pregiudizi e, per lungo tempo, di invisibilità. Il caso italiano è poi particolare, perché gran parte delle disuguaglianze di genere sono state originate dal vuoto di tutela creato dalla legge n. 91 del 1981, che ha consentito di fatto il mancato riconoscimento di qualsiasi disciplina femminile come professionistica. Il divario di garanzie tra sportivi e sportive risultava molto ampio, sproporzionato e, ancora di più, illegittimo. La legge del 1981 si presentava, infatti, contraria a tutte le carte, le convenzioni e gli altri documenti in cui si propugna con fermezza il principio di eguaglianza.
Nonostante tali richiami, solo quarant’anni dopo l’Italia, con l’art. 38 del d.lgs. n. 36 del 2021, ha previsto la qualificazione di una disciplina sportiva come professionistica senza distinzione di genere. Il che non è stato privo di (immediate) conseguenze positive per quanto concerne la parità dei sessi. Infatti, dalla stagione sportiva 2022/2023 esiste anche nel nostro paese la Serie A femminile del Calcio professionistico. Finalmente!
*Direttrice del Master in Diritto Sportivo e Rapporti di Lavoro nello Sport dell’Università di Milano-Bicocca. Ammissioni al Master: fino al 14 marzo 2023.