Silvia Bignamini e l’impegno per la lotta all’AIDS in Africa e al Covid-19 a Bergamo - Bnews Silvia Bignamini e l’impegno per la lotta all’AIDS in Africa e al Covid-19 a Bergamo

Con una laurea in Medicina conseguita nel 2000 all’Università Bicocca e una specializzazione in Medicina preventiva quasi in tasca, nel 2003 Silvia Bignamini è partita per portare avanti il suo progetto di tesi sulla prevenzione dell’HIV in Zimbabwe. Da allora la sua vita di medico e di donna è stata sempre legata al continente africano, fino a quando, da poco arrivata a Bergamo, nel 2020 si è trovata a fare i conti con l’irruzione del Covid in Italia. Complice la sua passione per la scrittura, Silvia ha deciso di raccontare questo vissuto in un libro dal titolo “Sentieri della diversità e dell’uguaglianza”, per la collana “Storie positive” curata da Flavio Sangalli.
Noi l’abbiamo intervistata per conoscere il motore delle scelte che l’hanno messa davanti a sfide e scommesse sempre nuove.

Silvia, l’Africa fa da sfondo a quasi vent’anni di vita e di scelte professionali, ci racconta come nasce il legame con questa terra?

Silvia Bignamini
Silvia Bignamini

Dopo il progetto di tesi di specializzazione, sono tornata in Zimbabwe insieme a mio marito, qui ho lavorato con un ospedale missionario. È stata un’esperienza in cui ho imparato tantissimo. Nel 2007 siamo rientrati in Italia, dove è nata la mia prima figlia. Dopo due anni siamo ripartiti per il Mozambico, dove ho lavorato con il ministero della sanità locale: mi occupavo di programmazione, monitoraggio e valutazione dei servizi sanitari. Qui i problemi principali di sanità pubblica erano relativi all’HIV, alla malaria e alla tubercolosi. Dopo un master all’Università di Liverpool, ho iniziato a lavorare con l’Organizzazione Mondiale della Ssanità. Questa occupazione mi ha portato anche in Angola e a Capo Verde. Sono tornata anche di recente in Mozambico per un progetto sulla riduzione della mortalità materna e neonatale. Mantengo tanti contatti in questa terra, si è trattato di un periodo molto importante della mia vita, qui è nato anche il mio secondo figlio.

A quali cambiamenti ha assistito nel corso degli anni?

Il Mozambico si è trasformato sia in termini di infrastrutture – sono sorti nuovi ospedali – sia in termini di formazione del personale. Rispetto a quando sono arrivata, oggi vengono formati molti più medici.

Sono emerse anche nuove patologie da affrontare?

Al momento si sta attraversando in una fase di transizione, le malattie infettive convivono con patologie cardiovascolari e oncologiche. Questo è dovuto all’allungamento dell’aspettativa di vita. Parallelamente aumentano anche le capacità diagnostiche e dunque si ha la possibilità di intercettare anche queste patologie croniche.

Quale situazione ha trovato al suo rientro in Italia?

Dal punto di vista sanitario, ho trovato il nostro Paese un po’ fermo. Forse perché quando si raggiungono livelli molto alti è più difficile progredire. Si pensava che il nostro sistema sanitario – pur con le sue criticità - potesse funzionare bene, ma il Covid ci ha messo in crisi. Son venuti fuori i limiti di un atteggiamento che ci porta a sperimentare poco, a non cercare nuove soluzioni per risolvere i problemi.

Nel 2020 lei stava lavorando a Bergamo, epicentro della pandemia in Italia: come l’avete affrontata?

A Bergamo tutti hanno tirato fuori il massimo, ogni persona ha dato il meglio. È stata tuttavia una situazione spiazzante anche per noi medici. Ricordo quando a Bergamo non si trovavano le ambulanze. E ho pensato ai momenti vissuti in Africa, quando i mezzi di soccorso non c’erano, ma in quel caso era una situazione alla quale ero preparata prima di partire. Non avrei mai pensato, invece, di vivere situazioni analoghe in Italia. Ricordo ancora la sensazione di incredulità davanti ad affermazioni come “in ospedale non ci sono più posti in terapia intensiva”.

Qual è oggi la situazione negli ospedali italiani?

Ora è sotto controllo. La vaccinazione ha avuto il suo ruolo. Il resto lo ha fatto l’andamento ciclico di tutte le epidemie. A Bergamo, nella struttura in cui lavoro, la Casa di cura San Francesco, non abbiamo ricoverati per Covid. Ci sono pazienti con altre patologie a cui poi viene rilevata l’infezione da Sars-CoV-2, ma che non presentano i sintomi della malattia. La sfida per gli ospedali adesso è di carattere igienico-sanitario: occorre isolare questi pazienti e creare percorsi ad hoc. C’è inoltre un problema legato alla gestione di tutte le altre patologie: tumori che non sono stati diagnosticati in fase di screening e che vengono alla luce in fase più avanzata; malattie cardiache, neurologiche, polmonari che sono peggiorate per una mancanza di accesso alle cure. Abbiamo raddoppiato visite ed esami: è richiesto ancora un grande sforzo al personale sanitario.

Esiste un filo conduttore tra queste due esperienze in Africa e a Bergamo?

Io sono partita per l’Africa anche perché in Italia mi sentivo bloccata in binari prestabiliti. Era difficile pensare di cambiare il passo. Ma sono rientrata per dare stabilità ai miei figli. La pandemia poi ha scardinato completamente questi binari. Ad oggi sono soddisfatta di essere in Lombardia in una fase in cui c’è l’opportunità di costruire davvero qualcosa di diverso. In Africa era così: c’era da rimboccarsi le maniche e cercare nuove strade.

Quali ambiti, secondo lei, hanno bisogno di maggiori attenzioni?

Personalmente voglio impegnarmi per gli ambiti rimasti un po’ indietro anche a causa della pandemia: gli anziani, in primis, con tutte le problematiche sanitarie e non sanitarie legate a questa fase della vita, come la solitudine. E poi l’area della salute mentale: ci sono dei bisogni e dei segnali in età adolescenziale che dobbiamo cogliere adesso, si tratta di persone giovani che hanno una vita davanti. Se non si mettono in atto delle strategie di prevenzione e di recupero immediato, si rischia di avere tra 20-25 anni una società con serie criticità.