Il tema delle periferie a Milano e nelle grandi città emerge spesso sui media o durante le campagne elettorali: l’insicurezza, l’esclusione sociale sono gli aspetti su cui solitamente si sofferma l'attenzione. E' importante però affrontare questi temi anche con gli strumenti di analisi e di intervento che può mettere a disposizione l'università. Paolo Grassi, ricercatore presso il nostro ateneo, lo ha fatto partendo dal punto di vista dell’antropologia urbana. Lo abbiamo interpellato in questa conversazione in cui ci racconta brevemente il frutto di una ricerca etnografica durata diversi anni.
La sua ricerca si colloca in una zona specifica dell’area di San Siro, in quello che lei e anche alcuni abitanti avete denominato “Barrio San Siro”. Ce ne vuole raccontare un po’ la storia e le caratteristiche per aiutarci a entrare in argomento?
È un quartiere di edilizia residenziale pubblica, a forma di quadrilatero, facilmente riconoscibile se visto dall’alto, perché è fatto di palazzine simili e orientate in modo regolare, con al centro Piazza Selinunte. Venne edificato tra gli anni Trenta e gli anni Cinquanta del Novecento per ospitare la classe operaia milanese che lavorava nelle fabbriche circostanti. Il quartiere ha circa 6000 alloggi al cui interno vivono approssimativamente 12.000 persone. Nel corso del tempo è cambiato ovviamente, come tutta la città: si è modificata per esempio la sua composizione demografica, che una volta vedeva la prevalenza di italiani provenienti dal Sud e dal Nordest e oggi invece conta fino a 85 nazionalità diverse provenienti da tutto il mondo, prevalentemente dal Nordafrica. Viene gestito da ALER Milano, benché, nel corso degli anni, una parte delle abitazioni sia stata venduta. È evidente che il quartiere è abitato da persone con meno risorse, persone che però svolgono un ruolo importante nell’economia della città, che lavorano per esempio come badanti, addetti alle pulizie, all’artigianato, ma non solo. “Barrio” è una delle tante rappresentazioni negative che sono state utilizzate per descrivere il quartiere, un’etichetta che tuttavia è stata riappropriata da alcuni residenti anche in chiave rivendicativa.
Al centro dei suoi interessi come etnografo c’è la periferia, in particolare mi sembra ricorra il tema della violenza, che però non è intesa, se non in minima parte, come violenza materiale. Ci può spiegare meglio come intende questo concetto e come si applica al contesto del “Barrio San Siro”?
Anche se a livello geografico quella zona di San Siro non è in senso stretto una periferia perché è vicina al centro della città, nondimeno è un’area che è rimasta esclusa dalle dinamiche di sviluppo che invece hanno interessato Milano negli ultimi anni. In questo senso rimane un quartiere periferico e, per molti aspetti, marginalizzato. Quando parlo della violenza nel quartiere mi riferisco non a una violenza letterale, ma a quella che definisco una “violenza strutturale”, ovvero a determinate condizioni storiche, economiche, politiche e sociali che producono sofferenza, comportamenti devianti, o sottendono processi di stigmatizzazione del quartiere e dei suoi abitanti. Il focus che ha guidato la mia attività di ricerca è stato indagare la relazione tra lo spazio urbano e le persone. Quindi cerco di guardare allo spazio in maniera relazionale, come il prodotto di relazioni sociali, ma anche come il produttore di relazioni sociali. Le persone creano uno spazio determinato, ma poi lo spazio retroagisce sulle persone e ne condiziona la vita quotidiana.
Come valuta il rapporto tra il quartiere e le istituzioni?
Non si può dire in assoluto che San Siro, come altri quartieri periferici, sia stato abbandonato dalle istituzioni, in realtà le istituzioni hanno investito anche molto nel corso degli anni, ma spesso questi investimenti sono stati a breve termine oppure sono stati espressione di un’attenzione che potremmo definire “selettiva”. Quindi non ci sono stati interventi integrati importanti sul quartiere, oppure ci sono stati ma in passato, adesso è da molti anni che non si ragiona in quest'ottica. In questo senso le istituzioni ci sono, ma va messa anche a fuoco la qualità dell'intervento, senza dimenticare che spesso parliamo di istituzioni in generale, ma nella realtà pratica ci sono diverse istituzioni: Regione Lombardia e Comune di Milano in primis, che a volte sono in competizione tra di loro.
Ci sono stati aspetti che l’hanno sorpresa, in positivo o in negativo, rispetto alle ricerche etnografiche che aveva fatto nei barrios dell’America Latina? Cosa emerge a suo avviso dal confronto tra le due realtà?
Nella mia ricerca a Città del Guatemala ero partito proprio dal tema della violenza, ma lì si trattava della violenza delle gang, di una violenza sociale che è una costante sempre presente e condiziona in modo pesante la vita della città. Il livello di segregazione lì è molto più elevato. In America Latina spesso certi processi sono più evidenti, più espliciti, mentre in Italia hanno un'intensità molto minore. Imparare a riconoscere però alcune dinamiche ti permette di identificarle anche qui, quando sono presenti in forma meno esplicita, e magari in un’ottica applicativa di arginarle, o se possibile prevenirle.
Come ha portato avanti la sua ricerca, ha avuto finanziamenti, è stato supportato in qualche modo?
La prima parte della ricerca l’ho svolta grazie ad un assegno di ricerca dell’Università di Padova, poi ho cominciato a collaborare con Mapping San Siro, un progetto di ricerca-azione promosso dal Politecnico di Milano, da cui ho ricevuto un altro assegno di ricerca. Quest’iniziativa si è poi trasformata in un laboratorio di ricerca inter-ateneo, nato dalla collaborazione tra l’Università Milano-Bicocca e il Politecnico. Il laboratorio si chiama CURA Lab (Collective Urban Research and Action) ed è coordinato dalla prof. Francesca Cognetti, urbanista del Politecnico e da me. Indaga i temi della disuguaglianza e i processi di marginalizzazione, cercando di combinare antropologia e urbanistica.