La politica di qualità alimentare dell’UE è focalizzata sul riconoscimento e la valorizzazione delle indicazioni geografiche dei prodotti. Si pone il problema di valutare se le aziende e le istituzioni siano in grado di comunicare i simboli in modo corretto per consentire alla popolazione di riconoscerli.
C’ è anche questo tra gli obiettivi della ricerca finanziata nell’ambito del progetto PNRR “ON Foods - Research and innovation network on food and nutrition Sustainability, Safety and Security – Working ON Foods”, cui partecipa anche il nostro ateneo.
Abbiamo chiesto alla dottoranda Emma Sofia Lunghi di raccontarci a che punto siamo nella partita legata all'alimentazione e all'ambiente.
Dott.ssa Lunghi, ci aiuta a capire quali sono i simboli della certificazione geografica e che cosa significano?
A partire dagli anni Novanta, l’Unione Europea ha investito molto per stabilire delle norme comuni in materia di sicurezza e di qualità dei cibi. A livello di normativa possiamo a mio avviso identificare due livelli di qualità. Il primo consiste nel garantire ai consumatori che i prodotti agroalimentari prodotti e venduti all’interno dell'Unione Europea siano sicuri per chi li mangia. In questo senso la sicurezza alimentare (food safety) è obbligatoria, chi produce e distribuisce alimenti è infatti sottoposto a controlli regolari.
Il secondo livello è invece facoltativo. Qui troviamo due categorie di certificazioni di qualità: il biologico e le indicazioni geografiche. Secondo la normativa i prodotti certificati vengono resi riconoscibili sul mercato tramite l’apposizione di simboli certificatori apposti sugli involucri degli alimenti. C’è da domandarsi, e questo è un obiettivo del mio lavoro, se il significato di questi simboli sia ben compreso dai consumatori. Bisogna aggiungere che oltre a questi simboli “ufficiali”, esiste anche una moltitudine di bollini e “claim” che potrebbe portare il consumatore ad essere confuso sulla qualità dei cibi acquistati.
Tuttavia, c'è chi sostiene che la qualità, come definita in questi standard, potrebbe non necessariamente tradursi in benefici tangibili per i consumatori, come ad esempio il gusto, la salute, l'impatto ambientale o il benessere animale. Qual è la sua opinione?
La normativa europea è piuttosto vaga riguardo alla definizione stessa di “qualità dei cibi”. Quello che posso anticipare è che il regolamento sul biologico è molto diverso da quello che istituisce le indicazioni geografiche. Per ottenere la certificazione biologica un prodotto deve rispettare degli standard di produzione che fissano alcuni limiti riguardo all’utilizzo di pesticidi, fertilizzanti, garantiscono un benessere animale maggiore rispetto alla produzione ordinaria e comportano comunque una riduzione dell’impatto negativo delle produzioni agroalimentari sull’ambiente e sull’ecosistema rispetto a quelle ordinarie. Questi requisiti possono non essere considerati sufficienti, ma sono per lo meno previsti.
Nel caso delle indicazioni geografiche invece la questione è più complessa. Prima di tutto i prodotti agroalimentari certificati sono di natura molto diversa, si passa da prodotti a base di carne, a formaggi, ortaggi, legumi, cereali, vino, etc. Prendiamo ad esempio la valutazione dell'impatto delle scelte di consumo alimentare sulla salute delle persone, prima dell’origine geografica il problema riguarda la categoria dell’alimento. Eppure è possibile trovare lo stesso simbolo di qualità su una mela o su un salame. Seppur certificato, è altamente sconsigliato consumare salame tutti i giorni, mentre una mela che sia certificata o meno mantiene delle proprietà salutari intrinseche.
La seconda problematica riguarda invece i requisiti di produzione: le indicazioni geografiche non garantiscono che il cibo sia stato prodotto con meno pesticidi o con materie prime migliori, ma che una parte o l’intera produzione sia avvenuta in una zona geografica definita. Questo significa che possiamo anche avere un prosciutto a cui viene riconosciuta l’indicazione geografica la cui carne non proviene dalla zona geografica di trasformazione o del vino la cui uva è stata trattata con un quantitativo importante di pesticidi.
Un'ulteriore difficoltà per il consumatore sta poi nel dover scegliere tra prodotti certificati molto simili. In Italia soprattutto, il numero di indicazioni geografiche riconosciute va moltiplicandosi di anno in anno. Solo la regione Toscana ha tre consorzi di tutela di olio extra vergine di oliva, siamo certi che la presenza di tre indicazioni geografiche sull’olio EVO per una sola regione costituisca un vantaggio per i consumatori e per i produttori?
Una questione fondamentale da affrontare: i simboli corrispondono all’impatto alimentare delle produzioni? In poche parole basta la prossimità per capire se sono effettivamente sostenibili?
Personalmente non penso che la prossimità sia un criterio sufficiente. Le politiche di prossimità alimentare sono di sicuro interessanti rispetto alla riduzione delle emissioni di gas ad effetto serra, visto ad esempio che vengono abbattuti i costi energetici di trasporto, in alcuni casi possono essere valide anche per quanto riguarda la garanzia della sicurezza alimentare ( intesa come la garanzia di quantità sufficienti e adeguate di cibo). Nel caso delle indicazioni geografiche però, queste vengono riconosciute proprio per garantire una visibilità maggiore dei prodotti agroalimentari non solo sul mercato nazionale ma anche a livello internazionale. Questo comporta a mio avviso una storpiatura della concezione stessa di produzione locale. E solleva dei dubbi riguardo la prossimità che viene protetta.
Un altro elemento che a mio avviso necessita di essere valutato riguarda poi il tipo di prodotto agroalimentare. A prescindere dalla certificazione, la produzione di carne e formaggi ha un impatto ambientale nefasto. Prima di considerare la prossimità delle produzioni bisogna quindi rivalutare i quantitativi di consumi della popolazione. Nel caso della produzione ortofrutticola invece, la questione si articola in modo diverso. Il problema non riguarda i quantitativi consumati dalla popolazione ma il sistema produttivo: l’inquinamento dei terreni, lo spreco di acqua, il trasporto delle materia prime, etc. In generale, la produzione agroalimentare produce un quarto delle emissioni di gas ad effetto serra a livello globale. Questo ha dunque un impatto diretto sull’aumento degli effetti del cambiamento climatico, tra cui gli eventi meteorologici estremi che minacciano le produzioni agricole ogni anno di più.
Il problema del costo: standard e certificazioni hanno un impatto economico sul prezzo di vendita. In tal senso la qualità alimentare è ancora un diritto di tutti o un privilegio riservato ad alcune classi socio-economiche?
Le certificazioni di qualità hanno anche per obiettivo di valorizzare i prodotti sul mercato. Questo implica che mediamente il prezzo di vendita dei prodotti certificati rispetto ad un prodotto ordinario è più elevato. In questo senso il regolamento non mi sembra garantire l’accesso dei cibi considerati di qualità superiore all’insieme della popolazione, ma solo a quelle fasce socioeconomiche che hanno una certa capacità di acquisto. Eppure la qualità dei cibi è importante prima di tutto per garantire un’alimentazione sana e sostenibile. La mia tesi di dottorato ha proprio per obiettivo quello di valutare la normativa europea e di capirne gli effetti, tra questi l’aspetto dell’accessibilità a dei cibi di qualità è certamente prioritario. Credo che un aspetto critico della normativa sia proprio quello di creare una gerarchia nel tipo di qualità alimentare che viene garantita ai cittadini. Se i prodotti agroalimentari biologici e quelli protetti da un’indicazione geografica fossero davvero migliori per l’ambiente e per la salute delle persone non bisognerebbe pensare ad un sistema che ne garantisca l’accesso alla totalità della popolazione?
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