Più tecnologia e organizzazione. Ecco cosa serve all’Italia per il lavoro flessibile - Bnews Più tecnologia e organizzazione. Ecco cosa serve all’Italia per il lavoro flessibile
Più tecnologia e organizzazione. Ecco cosa serve all’Italia per il lavoro flessibile
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Orari di lavoro flessibili, più attenzione alla vita familiare e lavoratori più soddisfatti e più produttivi. In diverse parti del mondo sono in corso sperimentazioni per ridurre l’orario di lavoro. E se in Germania, grazie agli accordi sindacali, i metalmeccanici ottengono la settimana lavorativa di 28 ore, in Nuova Zelanda una società che gestisce attività fiduciarie ci prova con la settimana corta: si lavora per quattro giorni, ma si viene pagati per cinque. A una prima lettura dei dati Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico), la Germania sembrerebbe il Paese dove si lavora mediamente meno: nel 2015, 1371 ore contro le 1725 dell’Italia. Ma, come ci ha spiegato il professor Emilio Reyneri, sociologo del lavoro del dipartimento di Sociologia e ricerca sociale dell’Università di Milano-Bicocca, è un dato che non considera tutti i fattori, per esempio il fatto che in Italia vi sono molti più lavoratori indipendenti.

Professor Reyneri, in Italia si lavora più o meno di Paesi come la Germania? 

L’orario di lavoro in Italia non è affatto più lungo di quello della Germania se correttamente si tiene conto della diversa composizione dell’occupazione. È vero che, secondo le statistiche fornite dall’Ocse, il numero medio di ore lavorate nel corso di un anno da un occupato è in Italia più alto che in Germania (nel 2015, 1.725 ore contro 1.371) e tra i più alti dell’Europa occidentale. Ma questo è un dato medio che non considera che in Italia vi sono molti più lavoratori indipendenti (addirittura il doppio che in Germania), che lavorano molto più a lungo nel corso della settimana, e meno lavoratori a tempo parziale, che ovviamente hanno un orario settimanale più corto. Il confronto va quindi fatto sull’orario medio di un lavoratore dipendente a tempo pieno. L’Ocse calcola anche questo dato e il risultato è ben diverso. In Italia l’orario di lavoro settimanale usuale ammontava nel 2015 a 39,4 ore contro 39,8 ore della Germania e una media dei paesi Ocse di 40,4 ore.

Sperimentazioni come quelle avviate in Nuova Zelanda o in Germania quali benefici apportano alla produttività? E alla vita privata dei lavoratori?

Si tratta di casi molto diversi, anche se entrambi diretti a favorire una migliore conciliazione tra tempi di lavoro e tempi di cura per la famiglia. In Germania l’accordo sindacale che prevede la possibilità di ridurre l’orario settimanale per un certo periodo in caso di bisogni familiari, con una riduzione solo parziale del salario, è stato compensato dalla possibilità delle imprese di allungare l’orario per altri lavoratori e concerne essenzialmente le grandi imprese metalmeccaniche (quelle ove vige la contrattazione sindacale) a elevata produttività. Quindi siamo più nell’ottica della flessibilità dell’orario, ma segnala comunque una grande attenzione per i problemi della vita familiare da parte di un settore tipicamente maschile, quale quello dell’industria. Si tratta di un importante segnale di cambiamento culturale, che si vorrebbe fosse colto anche in Italia, dove è molto difficile se non quasi impossibile passare dal tempo pieno a quello part time e viceversa secondo le necessità del ciclo di vita familiare.
In Nuova Zelanda si tratta di un’impresa di servizi, in cui i lavoratori, altamente qualificati, possono facilmente intersecare tempi di lavoro e tempi dedicati alla vita personale. Qui la riduzione del tempo di lavoro trascorso nell’azienda sembra diretto a far sì che i lavoratori svolgano al di fuori dell’orario attività legate alla vita familiare (telefonate, mail, ecc.) che di fatto già svolgevano durante l’orario di lavoro. Quindi l’esito nell’intenzioni dell’impresa dovrebbe essere meno presenza in azienda, ma più produttiva. Anche qui comunque c’è l’idea che lavoratori più soddisfatti nella loro vita familiare siano più produttivi. Teniamo presente, infine, che nel lavoro intellettuale spesso i lavoratori non “staccano” mai dall’impegno lavorativo, sempre “connessi” in rete.
 

La riduzione dell'orario di lavoro può essere un rimedio alla disoccupazione?

Questa idea ebbe una grande diffusione negli anni Novanta e portò alle 35 ore in Francia per legge. L’esito non fu incoraggiante. Il fatto è che i lavoratori non sono fungibili e spesso quelli disoccupati non hanno le caratteristiche e le competenze adeguate per sostituire quelli che dovrebbero lavorare meno ore. Inoltre, se questa riduzione non vuol incidere sulla retribuzione complessiva, occorre che sia accompagnata da un aumento della produttività, grazie a cospicui investimenti in tecnologia e organizzazione. In Italia, ove la produttività del lavoro ristagna da vent’anni, percorrere questa strada sembra al momento difficile. Ciò non toglie che una politica volta a progressivamente favorire orari più corti possa contribuire ad aumentare l’occupazione, purché sia accompagnata da processi formativi e da politiche attive del lavoro.