Oggi, 31 ottobre, si celebra la Giornata mondiale delle città, un’occasione per pensare al futuro urbano non solo in chiave sostenibile e innovativa, ma anche inclusiva e artistica.
La professoressa Marianna D’Ovidio, docente del Dipartimento di Sociologia e ricerca sociale, riflette sul ruolo della cultura e delle industrie creative nello sviluppo locale, sul legame profondo tra Milano e la moda e sulle sfide di una governance culturale capace di coniugare inclusione e innovazione.
Professoressa D’Ovidio, quale ruolo giocano oggi la cultura e le industrie creative nello sviluppo locale delle città europee?
Le città sono da sempre l’ambiente in cui la cultura prende forma e si diffonde. La densità degli incontri, la varietà delle esperienze e la presenza di istituzioni culturali fanno della città un laboratorio permanente di creatività e innovazione. Qui convivono la cultura dei teatri e dei musei più istituzionali con quella che si sviluppa ai margini, nelle periferie, nei luoghi occupati, nelle fabbriche dismesse.
La città è tutto questo: la cultura dei salotti e quella dei rave party, la trap delle periferie e l’opera dei grandi teatri. Ma è anche design, architettura, alta moda e stile di strada. Le città sono al tempo stesso spazi di consumo culturale e prodotti culturali esse stesse. Con i loro edifici, le piazze e i paesaggi raccontano i valori, le geometrie di potere, i conflitti e le estetiche di un’epoca.
Negli ultimi decenni, la cultura è stata riconosciuta anche come settore economico. Ma quanto conta ancora la sua funzione sociale e critica?
Come è noto, lo sviluppo e il consolidarsi del consumo di massa di prodotti culturali ha portato Adorno e Horkheimer a parlare di “industria culturale” con una forte accezione critica; posizione che è stata completamente ribaltata dal cosiddetto cultural turn nelle politiche urbane che individuano proprio nel settore culturale una nuova fonte di crescita economica, di rilievo, capace di generare occupazione e attrattività.
Indipendentemente dalla posizione che si vuole adottare, è comunque importante ricordare che la cultura rappresenta intrinsecamente un luogo di costruzione e negoziazione di immaginari e visioni del mondo, uno spazio dove si creano significati condivisi e si sperimentano nuove forme di convivenza.
Il modello urbano europeo, fondato su una forte tradizione di welfare e su un’idea di cultura come bene comune, è centrato sull’obiettivo di coniugare competitività e inclusione. Le politiche urbane più avanzate mirano a rafforzare le reti locali e a creare spazi di espressione per comunità spesso marginalizzate. La sfida per il futuro urbano è mantenere la cultura come spazio di libertà, pluralità e sperimentazione, capace di generare valore sociale e democrazia.
La recente scomparsa di Giorgio Armani e la candidatura di Donatella Versace per l’Ambrogino d’Oro riportano in primo piano il legame profondo tra Milano e la moda. In che modo l’industria della moda ha contribuito — e può continuare a contribuire — alla costruzione dell’identità culturale e sociale della città?
Poche città al mondo sono legate a un settore creativo come Milano lo è alla moda. Qui la moda non è soltanto un comparto produttivo, ma parte integrante dell’identità urbana, un linguaggio con cui la città si rappresenta e si reinventa.
L’industria della moda milanese nasce da una tradizione manifatturiera e artigianale di lunga durata, che ha saputo rinnovarsi integrando design, creatività e tecnologia. Oggi il sistema moda conta più di seimila imprese attive e rappresenta una quota significativa della ricchezza cittadina.
La forza di Milano sta nella prossimità tra chi progetta e chi produce: una rete di artigiani, laboratori e imprese che dialogano quotidianamente con le grandi maison. Questa interazione è una delle fonti principali di innovazione e potrebbe diventare, nei prossimi anni, la base per nuove forme di sostenibilità sociale e ambientale.
Ogni sistema creativo porta con sé anche contraddizioni. Quali criticità emergono nel caso della moda milanese?
Negli ultimi decenni, la crescente finanziarizzazione del lusso ha ridotto gli spazi per le piccole imprese e precarizzato il lavoro creativo. Le proteste come quella di Serpica Naro all’inizio degli anni Duemila ricordano che dietro l’immagine patinata della moda esistono condizioni di lavoro fragili e disuguaglianze profonde.
 Una recente ricerca europea sulla filiera globale del settore creativo e culturale ha mostrato che, quando piccole aziende producono per grandi marchi, tempi, prezzi e condizioni di lavoro sono spesso imposti dalle corporation, compromettendo uno sviluppo locale duraturo.
Milano e la moda restano, in ogni caso, un connubio inseparabile: la città non sarebbe la stessa senza il suo sistema moda, e la moda non sarebbe quella che è senza questa città. La vera sfida, oggi, è trasformare il valore simbolico ed economico di questo legame in benessere diffuso e riconoscimento del lavoro creativo in tutte le sue forme.
L’arrivo a Milano del nuovo film Il Diavolo veste Prada è un segnale forte di come l’immaginario culturale possa incidere sulla reputazione e sull’attrattività di un luogo. Qual è il potenziale — e il rischio — di questa dimensione simbolica nella trasformazione urbana?
L’immaginario urbano è oggi una delle componenti più potenti della trasformazione delle città. Le immagini che circolano attraverso cinema, moda e social media non solo raccontano un luogo, ma ne plasmano la reputazione e le traiettorie di sviluppo.
Nel caso di Milano, questa narrazione si inserisce in una strategia più ampia di city branding: un racconto visivo che consolida la città come capitale della creatività e dello stile. Ma se da un lato un’immagine forte può attrarre persone e investimenti, dall’altro rischia di sovrastare la complessità reale della città.
Quando la cultura diventa solo linguaggio di promozione, si aprono spazi di esclusione. La “città immaginata” rischia di oscurare la “città vissuta”: quella fatta di chi lavora, abita e crea lontano dai riflettori.
Guardando ai prossimi anni, come può Milano continuare a essere un laboratorio di creatività e democrazia urbana?
Molte città europee hanno saputo coniugare competitività e coesione sociale grazie a politiche radicate nel contesto locale. Milano dovrebbe muoversi nella stessa direzione: riconoscere la creatività come pratica diffusa, che attraversa quartieri, scuole, associazioni e laboratori artigiani.
Una ricerca condotta dal Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale in collaborazione con la Fondazione Pirelli HangarBicocca ha mostrato un ecosistema artistico milanese vitale ma anche precario: spazi indipendenti, realtà di nicchia e progetti d’avanguardia che resistono in una città sempre più costosa ed escludente.
Costruire una città condivisa significa mettere in dialogo istituzioni, imprese e comunità locali, rigenerando gli spazi non per abbellirli, ma per renderli vivibili e relazionali.
Serve un cambio di sguardo: considerare la cultura non come un ornamento, ma come un ambito importante di costruzione di immaginari, significati e visioni complesse. Non necessariamente condivise, ma plurali, terreno di costante negoziazione e riflessione. E questo richiede processi lunghi, risorse e ascolto, con la consapevolezza che le persone e i territori hanno grande capacità di azione, immaginazione e cura.
Una governance culturale realmente innovativa nasce dall’ascolto, dalla collaborazione e dal riconoscimento della pluralità dei modi di “fare cultura”. Solo così Milano potrà continuare a essere un laboratorio non solo di creatività, ma anche di democrazia urbana.
 
        
    