Stefano Bertacchi è ricercatore nell’ambito delle biotecnologie industriali e lavora all'IndBioTech, laboratorio del dipartimento di Biotecnologie e bioscienze, dove si occupa di bioprocessi basati sull’uso di microorganismi per la valorizzazione di biomasse residuali, quindi materiali organici di scarto. Studia questi bioprocessi per ottenere prodotti di uso commerciale. Tra le varie tematiche di ricerca di cui si interessa, ci sono anche le bioplastiche, e con Ruggero Rollini e Simone Angioni ha dedicato all’argomento (insieme al tema più ampio delle plastiche) una monografia per smentire alcuni luoghi comuni e fraintendimenti. Quale migliore guida dunque per addentrarci nel mondo delle plastiche.
Dottor Bertacchi, cos’è esattamente e com’è nata la plastica?
Innanzitutto dovremmo parlare di plastiche al plurale perché si tratta di materiali molto diversi fra loro e basta già prendere in mano una comune bottiglietta d’acqua per avere a che fare con (di solito) tre materiali: c’è il PET, che è il corpo della bottiglia stessa, l’etichetta in polipropilene e il tappo di polietilene. Potremmo dire che sono tutti dei polimeri, e sarebbe vero, ma al tempo stesso sarebbe una definizione estremamente generica perché anche il nostro DNA o le stesse proteine sono polimeri. Diciamo che la caratteristica che accomuna tutti i materiali plastici è nella parola stessa, sono cioè materiali - questo vale in particolare per le termoplastiche - che sono malleabili quando vengono scaldati e hanno una struttura rigida quando si raffreddano; poi la gamma di materiali è, come si intuisce, molto variegata.
Una delle prime plastiche è stata la celluloide (derivante dalla cellulosa, quindi una bioplastica) che venne pensata come sostituto dell’avorio, molto più costoso e raro, per produrre le palle da biliardo, verso la fine del XIX secolo. Poi uno step molto importante nello sviluppo di materiali plastici è stato fatto durante la Seconda guerra mondiale. Sono stati introdotti in quel periodo materiali per uso militare, o dual use come si direbbe oggi, che avevano la caratteristica di essere estremamente leggeri e al tempo stesso resistenti. C’è stata per esempio un’evoluzione nell’uso del nylon, fibra che è stata usata nei paracaduti e nelle divise e poi, combinata con l’elastano, nei collant da donna. Poi c’è la fase che potremmo definire “più matura” dell’uso dei materiali plastici con l’introduzione del polipropilene, in cui il nostro Giulio Natta, in collaborazione con Ziegler, ha avuto un ruolo da protagonista. Anche in questo caso ritroviamo quelle caratteristiche che hanno fatto la fortuna di tutte le plastiche: leggerezza, economicità e durevolezza, caratteristiche vincenti rispetto ai materiali tradizionali come il vetro, l’acciaio o il legno.
Quello che era un vantaggio però alla lunga si è trasformato in un difetto…
In effetti sì, questa caratteristica di essere materiali super-durevoli è anche un po’ la loro condanna: hanno un ciclo di vita molto lungo, ma quando diventano un rifiuto si accumulano nell’ambiente se non li trattiamo correttamente. Finché si tratta di un oggetto come una sedia, destinato a durare, va bene, ma se è un oggetto monouso come un imballaggio da supermercato, diventa un problema se non c’è una filiera di riciclo corretta, si accumula nell’ambiente e vi rimane per molti anni. Vorrei evitare facili semplificazioni: l’uso sconsiderato attuale della plastica sicuramente è specchio del consumismo e di tante cose sbagliate nella nostra società. Allo stesso tempo però ci ha aiutato a prevenire molti problemi: pensiamo all’uso e getta nel settore sanitario (es. guanti, siringhe); lo stesso packaging commerciale, il cui ciclo di vita è per sua natura molto breve, riduce la contaminazione microbica e allunga la data di scadenza di certi prodotti.
In Italia possiamo mettere nel bidone della plastica solo gli imballaggi, quindi se ho per esempio delle calze di nylon non le posso riciclare, ma anche se ho un fermacarte o un oggetto qualsiasi in plastica, non lo posso buttare nel contenitore apposito, perché solo i produttori di imballaggi pagano il contributo ambientale e solo la loro plastica viene riciclata. Tutto quello che non è imballaggio viene buttato nell’inceneritore.
Parliamo delle cosiddette isole di plastica negli oceani come il Pacific Trash Vortex. Cosa si può fare?
In teoria si potrebbe immaginare delle operazioni su larga scala di recupero e “pulizia”, ma ci sono problemi non di poco conto e il primo è che larga parte di questa plastica è ridotta a frammenti molto piccoli, e poi non possiamo pensare di operare solo a valle del processo, quando ormai il danno ambientale è fatto, altrimenti sarà un’operazione costosa e alla fine inutile; dobbiamo intervenire a monte, dove c’è la produzione, il consumo e lo smaltimento. Da un lato bisogna ridurre la produzione e il consumo eccessivo di materiale monouso - nel contesto di una generale riduzione della produzione di rifiuti - e poi dove possibile prediligere le fonti rinnovabili, le biomasse e così via. Bisogna cercare di avere del materiale che sia biodegradabile nel caso finisca nell’ambiente e contemporaneamente implementare e potenziare il riciclo. Solo così possiamo evitare che finisca nelle discariche, dalle discariche ai fiumi e da lì al mare. Anche sul biodegradabile comunque bisogna intendersi: non è che se un sacchetto è biodegradabile in tre mesi, o un anno – che è pochissimo rispetto alla plastica convenzionale – non provoca un danno ambientale. Sicuramente la filiera del compostabile può essere un’opportunità, perché apre una nuova via per lo smaltimento, già organizzata.
La plastica fa ormai talmente parte del nostro mondo che in un certo senso è anche parte di noi
Sicuramente c’è il tema delle micro e nanoplastiche che in qualche modo ormai sono dentro di noi. Ci sono nell’aria che respiriamo, nell’acqua che beviamo e anche nel cibo che ingeriamo. Non sappiamo ancora esattamente cosa ci possono fare, verosimilmente non ci fanno bene, ma non sappiamo quanto ci facciano male; più che le plastiche stesse potrebbe essere quello che si portano dietro a creare problemi. Sulle microplastiche comunque c’è stata, soprattutto in passato, un po’ di confusione e forse in certi casi anche disinformazione. Solo oggi cominciamo a stimare in modo corretto e preciso la quantità e la concentrazione di micro e nanoplastiche; è un settore di ricerca molto dinamico in questo momento e ci aspettiamo risultati nella ricerca nel futuro prossimo.