L'overtourism si combatte anche sui social - Bnews L'overtourism si combatte anche sui social

L'overtourism si combatte anche sui social

L'overtourism si combatte anche sui social
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Con l’arrivo della bella stagione tornano a profilarsi con prepotenza all’orizzonte i problemi legati all’overtourism, il sovraffollamento turistico che colpisce un numero crescente di località italiane, dalle principali città d’arte ai borghi più caratteristici. Facciamo il punto sul tema con Monica Bernardi, prof.ssa associata di Sociologia dell’Ambiente e del Territorio presso il Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale di Milano-Bicocca.

Come valuta le misure contro l’overtourism recentemente messe in atto in Italia?

L’estate 2024 è stata un banco di prova importante per osservare la capacità delle città di far fronte alla crescente pressione dei flussi turistici. Alcune destinazioni hanno introdotto misure di contenimento, che tuttavia si sono rivelate spesso solo simboliche e palliative: interventi più altisonanti che davvero coraggiosi.

Paradigmatico è il caso di Venezia. Il contributo di accesso di 5 euro, introdotto nel 2024 e applicato solo in un numero selezionato di date, ha rivelato la natura ambivalente di molte politiche contemporanee, che da un lato generano entrate da reinvestire in servizi urbani, dall’altro, non affrontano alla radice le criticità generate dalla saturazione turistica. Il tributo non ha infatti costituito un deterrente significativo, né ha intaccato la logica della città-vetrina, dove il visitatore si sovrappone al cittadino come soggetto prioritario dello spazio urbano. Il contributo d’accesso per il 2025 verrà esteso a un numero maggiore di giornate (tra il 18 aprile e il 27 luglio), con l’obiettivo dichiarato di “regolare i flussi nel centro storico”, ma il ricorso a misure economiche piuttosto che regolative conferma la preferenza per strumenti di governo “morbidi”, che evitano di intaccare gli equilibri economici legati all’industria turistica.

Un altro esempio significativo è Firenze, dove l’amministrazione ha recentemente introdotto misure come il divieto di utilizzare le keybox, i dispositivi per la consegna automatica delle chiavi diventate il simbolo della protesta dei residenti contro la turistificazione del centro storico, le limitazioni all’installazione di tastierini elettronici, l’obbligo di esposizione del Codice Identificativo Nazionale (CIN) sul campanello delle abitazioni e il divieto di nuove locazioni turistiche brevi nell’area Unesco del centro storico, con una deroga triennale per le attività già avviate entro il 2024.

Cosa si sta facendo all’estero?

Emblema delle contraddizioni del turismo urbano contemporaneo è Barcellona, una delle mete europee più colpite dall’overtourism, ma al contempo anche tra le più attive nell’elaborare risposte. Nel febbraio 2025, il governo regionale catalano ha proposto di raddoppiare la tassa turistica, portandola da 7,5 a 15 euro per notte per ogni visitatore, e di destinare almeno il 25% delle entrate derivanti a politiche per la casa, per contrastare la crescente inaccessibilità abitativa per i residenti stretti nella morsa della turistificazione e della finanziarizzazione immobiliare. Accanto all’emergenza abitativa, gli introiti dovrebbero contribuire a sostenere servizi essenziali come pulizia urbana, trasporti e sicurezza, in una logica di compensazione funzionale, volta a redistribuire almeno in parte il peso dell’afflusso turistico. Tuttavia, anche in questo caso, si tratta più di una misura di mitigazione che di una vera strategia di riequilibrio strutturale. Infatti, la tassa colpisce il turista-consumatore, senza intervenire sui soggetti economici che alimentano e capitalizzano il flusso turistico, come albergatori, piattaforme digitali e investitori immobiliari. La sua reale efficacia deterrente è dubbia. Come osservato dal gruppo dei Comunes al Parlamento catalano, un turista disposto a spendere 300 o 400 euro a notte difficilmente sarà disincentivato da un aumento di 7,5 euro sul soggiorno. A ciò si aggiungono critiche di ordine più strutturale: secondo Daniel Pardo, attivista dell’Assemblea dei Quartieri per la Decrescita del Turismo, l’aumento della tassa non fa altro che “legittimare l’attività turistica”, lasciando intatta l’infrastruttura di senso e di potere su cui si regge, non riesce a modificare il quadro complessivo delle relazioni di potere che governano la città turistica, ma anzi rafforza l’idea della sua inevitabilità e sposta il dibattito solo sulla gestione degli effetti, non sulla ridefinizione dei presupposti.

Quali misure maggiormente efficaci potrebbero essere prese?

La riflessione – per tutte e tre le città viste con le loro più recenti iniziative – rimanda all’urgenza di una governance turistica che non si limiti a redistribuire gli effetti, ma intervenga sulle cause, restituendo alla città la sua funzione abitativa, sociale e politica. Il nodo, ancora una volta, è quello del diritto alla città, in una prospettiva che non confonda compensazione con giustizia urbana e che promuova provvedimenti sistemici e olistici, capaci di rinegoziare la posizione del turismo nei modelli di sviluppo urbano.

I tentativi di regolazione però non si limitano alle città: troviamo misure recenti anche in contesti montani e marini, a testimonianza della necessità di ritematizzare il problema dell’overtourism, riportandolo al centro del dibattito politico e sperimentando anche qualche misura più drastica. È il caso delle Tre Cime di Lavaredo, dove si è introdotto un numero chiuso con registrazione obbligatoria, o della Baia del Silenzio a Sestri Levante, dove gli ingressi alla spiaggia sono ora contingentati e si valuta l’introduzione di un ticket di accesso. Questi provvedimenti segnano un importante tentativo di governare i flussi turistici in modo selettivo.

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Le Tre cime di Lavaredo e la Baia del Silenzio sono esempi di luoghi molto “instagrammabili”…

Bisogna riflettere su un dato strutturale: oggi, prima ancora dei corpi, a muoversi sono le immagini. La pressione turistica nasce sempre più spesso a monte, nel momento in cui un luogo diventa virale, instagrammabile, protagonista di un trend o di uno storytelling digitale. È proprio qui che si colloca il cosiddetto effetto instagram. Un processo attraverso cui l’immaginario digitale condiziona la geografia reale dei flussi, trasformando le destinazioni in contenuti da consumare, e il viaggio in una sequenza di scatti da condividere. Ed è proprio questa estetizzazione virale del paesaggio ad aver reso necessarie, per evitarne il collasso ecologico e sociale, le recenti misure di contenimento alla Baia del Silenzio e alle Tre Cime di Lavaredo. Lo stesso meccanismo è alla base della decisione, da parte dell’amministrazione di Fujikawaguchiko, in Giappone, di installare una barriera lunga 20 metri e alta 2,5 per nascondere la vista iconica del Monte Fuji: un tentativo estremo di arginare l’afflusso incontrollato di turisti, attratti dallo scatto perfetto, ma accompagnati da rifiuti abbandonati, parcheggi selvaggi e attraversamenti stradali pericolosi.
Una scelta simile è stata adottata anche a Hallstatt, Austria – 750 residenti versus oltre un milione di visitatori l’anno – dove sono stati installati pannelli oscuranti sul celebre belvedere per impedire ai turisti di scattare selfie, pur lasciando intravedere parte del panorama.

In tutti questi casi, il nodo non è solo il numero dei visitatori, ma il tipo di esperienza che viene ricercata: una fruizione puramente visiva, spesso rapida, scollegata dal contesto, che trasforma i luoghi in icone replicabili e sacrifica il senso del viaggio alla logica della prestazione social. Nella sua semplificazione narrativa rende le destinazioni semplici sfondi, seppur spettacolari, da consumare nel tempo di uno scatto, e restituire come contenuto monetizzabile, perdendone la profondità storica, culturale, territoriale... Una sorta di economia visuale del turismo dove la produzione/circolazione delle immagini acquisisce valore di mercato, incide sulle scelte di mobilità e consumo e alimenta la cosiddetta beautification urbana come risposta strategica delle destinazioni alla domanda di esperienze “instagrammabili”.

Ma a far leva sulla beautification non sono anche le destinazioni stesse?

Sì spesso anche le destinazioni finiscono nella trappola, automodellandosi secondo un’estetica standardizzata che privilegia il pittoresco e il fotogenico. Ne deriva una frammentazione anche della percezione turistica per cui il turista non esplora la città nella sua interezza, bensì passa da un “Instagram spot” all’altro, segue itinerari dettati dalla capacità dei luoghi di tradursi in immagini efficaci, e misura il valore dell’esperienza in termini di potenziale engagement sui social. L’esito è un circolo autoreferenziale dove le immagini condivise alimentano l’immaginario collettivo, influenzando le aspettative dei visitatori futuri e, conseguentemente, le strategie di beautification adottate dalle amministrazioni locali. In questo ecosistema visuale, la città reale, o parti di essa, tendono progressivamente a conformarsi alla sua rappresentazione idealizzata sui social media.

Per creare sovraffollamento può bastare anche un post di un influencer molto seguito…

Per comprendere davvero come si genera l’overtourism, osservare dove vanno le persone non basta più, occorre anche chiedersi perché ci vanno, cosa si aspettano di trovare, o di mostrare, che fruizione ne fanno e anche quale ruolo giocano i media nella costruzione del desiderio turistico. Un caso recente, e ormai tristemente noto, è quello di Roccaraso, località montana diventata virale sui social grazie ai video e post dell’influencer Rita De Crescenzo. L’improvvisa ondata di visibilità – veicolata dalla narrazione estetizzata e amplificata digitalmente – ha attratto migliaia di visitatori, generando un sovraffollamento improvviso, congestione stradale, difficoltà nella gestione dei servizi e tensioni con i residenti. Sollevando di conseguenza interrogativi urgenti sulla vulnerabilità dei piccoli centri all’effetto virale del turismo digitale.

Questa deriva è inevitabile?

Alcuni studiosi, come Gössling e Hall, suggeriscono che gli stessi content creator possono diventare agenti di cambiamento, promuovendo modelli alternativi di fruizione e consumo turistico; incoraggiando ritmi più lenti, viaggi fuori stagione, destinazioni meno note, ma anche scegliendo un approccio narrativo meno estetico e più rispettoso ed etico; mostrando la complessità del viaggio: le difficoltà, i limiti, il rapporto con i residenti, l’ambiente; e in alcuni casi scegliendo consapevolmente di non postare. Passando dalla nota logica della FOMO-Fear of Missing Out, a quella della cosiddetta JOMO-Joy of Missing Out: dalla compulsione del “non perdersi nulla” al piacere di prendersi del tempo per l’esplorazione lenta, meno mediata, tornando a dare valore al non-visibile, ai suoni, agli odori, alle storie orali, al dialogo con le comunità. Meno filtri, più realtà. Meno contenuto, più esperienza.

Per affrontare l’overtourism in modo efficace servono azioni a più livelli, quindi

L’overtourism è un tema complesso, che richiede interventi di regolamentazione non frammentati ma ecosistemici, che mettano in discussione il sistema stesso che lo ha alimentato; è necessario ripensare le politiche fiscali, spostando il carico dalle spalle dei fruitori a quelle degli operatori che traggono i maggiori profitti dalla turistificazione: piattaforme digitali, grandi catene alberghiere, investitori immobiliari e intermediari. Questo ripensamento oggi impone una riflessione profonda anche sulla dimensione dell’immaginario che alimenta i flussi turistici. Le politiche turistiche necessitano di includere una dimensione culturale e comunicativa capace di coinvolgere attivamente media, piattaforme digitali e influencer nella promozione di un turismo responsabile; educare alla complessità del viaggio, superando la logica della fruizione rapida e superficiale; supportare narrazioni alternative che valorizzino l’autenticità dei luoghi oltre la loro estetizzazione; sviluppare strategie di comunicazione che promuovano modelli sostenibili di fruizione turistica. Governare il turismo oggi significa anche governare le immagini che lo generano e il sistema di valori che le sostiene: oltre a trasformare i modi di gestire i flussi occorre trasformare anche i modi di raccontare, rappresentare e immaginare i luoghi.