Lo smart working: frutto imprevisto della pandemia - Bnews Lo smart working: frutto imprevisto della pandemia

Lo smart working: frutto imprevisto della pandemia

Lo smart working: frutto imprevisto della pandemia
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A pochi anni dalla fine dell’emergenza sanitaria, possiamo trarre un bilancio più equilibrato della sua eredità e considerare sotto una luce diversa quegli elementi che si possono conservare in tempi di ritrovata normalità. Uno di questi aspetti è la straordinaria diffusione del lavoro da remoto o - come impropriamente viene definito - “smart working”. Ne parliamo con la professoressa Valentina Pacetti, sociologa del lavoro nel nostro Ateneo, che insieme agli altri componenti del team di cui fa parte, ha presentato una ricerca su questo tema durante la Milano Digital Week. Essendo l’argomento per sua natura complesso lo affronteremo, dopo una prima parte introduttiva, da due angolazioni diverse: quella delle imprese e quella del mondo del lavoro.

Professoressa Pacetti, ci parli della ricerca che avete presentato durante la Milano Digital Week

Il titolo della ricerca è Digital transformation, remote working and wellbeing: companies, employees and trade unions, l’abbiamo sviluppata in ambito MUSA come uno dei progetti del Digital Transformation and Wellbeing Lab (DiTWeL). Si tratta di un lavoro che vede la collaborazione di sociologi ed economisti (il team di ricerca è composto da: Lorena D'agostino, Giovanna Fullin, Elisabetta Marafioti, Mattia Martini, Valentina Pacetti, Sara Recchi, Anne Iris Romens, Paolo Rossi, Gemma Scalise, Miriam Tomasuolo, Salvatore Torrisi, Simone Tosi) e prevede una survey alle imprese e una parte qualitativa con interviste in profondità.

In effetti per noi sociologi si tratta dello sviluppo di un’analisi che avevamo avviato fin dal 2020, quando si era nel pieno dell’emergenza pandemica. L’obiettivo in quella prima fase era capire quali caratteristiche stesse assumendo l'esperienza di lavoro delle persone in un momento critico, caratterizzato da condizioni di eccezionalità e di emergenza, ma fin da principio sono emersi temi la cui rilevanza si è poi confermata nel tempo: gli spazi di lavoro delle persone a casa, il work-life balance, la porosità dei tempi nell’interfaccia tra attività inerenti alla sfera privata e di lavoro; abbiamo cominciato a impostare anche una riflessione sul controllo organizzativo che ha dato i suoi frutti.

E dopo la prima fase in che modo si è sviluppata l’indagine?

Fondamentalmente sono seguite altre due fasi: nella prima abbiamo spostato il focus sulle relazioni industriali - in particolare questo lavoro è stato portato avanti con Anne-Iris Romens e Paolo Rossi del nostro Dipartimento - e l’interlocutore principale in questo caso è stato il sindacato. Volevamo verificare l’impatto del lavoro da remoto, specialmente nell’ambito del terziario avanzato dell’area milanese. Era importante capire le ricadute di questa trasformazione sulla contrattazione, consapevoli di un’ambivalenza implicita nelle richieste dei lavoratori, i quali da un lato preferiscono lavorare da casa, ma dall’altro in questo modo non si accorgono di lavorare spesso più di prima. Ovviamente si tratta solo di un aspetto, ma ne parleremo più dettagliatamente nel seguito, nella parte dedicata al mondo del lavoro.

Infine la terza parte è rivolta alle imprese

Sì, l’ultima parte ha le imprese come interlocutrici ed è questa la parte che abbiamo presentato l’11 ottobre alla Milano Digital Week, con la professoressa Giovanna Fullin e la dott.ssa Sara Recchi e con i colleghi che hanno curato la survey. Siamo state soddisfatte della riuscita dell’incontro perché c’è stata molta partecipazione, da parte di studenti e colleghi, ma anche da parte delle aziende: sono intervenute imprese come Cefriel, Deloitte, Huawei, Intesa Sanpaolo, Panasonic e Syngenta.

Per noi era fondamentale come momento di divulgazione pubblica, ma presentare i risultati della ricerca ci ha offerto anche l’occasione per discuterne direttamente con le imprese, raccogliendo il loro feedback. È evidente che stanno prendendo forma dei modelli che sono lontani da quelli che c’erano solo poco tempo fa, prima o durante la pandemia, per cui diventa molto interessante capire quali sono le caratteristiche e gli sviluppi di questi modelli organizzativi, e in questo senso è fondamentale ascoltare l’orientamento dei responsabili del personale delle grandi imprese.

Cosa si profila all’orizzonte?

Si sta affermando un modello “ibrido”, che combina il lavoro in presenza con quello in remoto; tra l’altro l’espressione “smart working”, che si è ormai imposta in Italia nell’uso quotidiano, è uno “pseudo-anglicismo” che non corrisponde al significato che questa espressione ha nel mondo di lingua inglese, quindi cerchiamo di usarla il meno possibile, anche per non creare malintesi nel momento in entriamo in contatto con colleghi stranieri. Preferiamo parlare in generale di “lavoro da remoto”. Il modello ibrido - come dicevo - tiene insieme in modo strutturato dei momenti di lavoro in presenza e dei momenti in cui si lavora in remoto. Tutte le grandi imprese che abbiamo considerato, pur non essendo state selezionate appositamente, utilizzavano il lavoro da remoto e più in generale oltre il 60% delle imprese contattate, a prescindere dal settore e dalle dimensioni, fa ricorso a forme più o meno elastiche di lavoro ibrido.

Emerge in modo evidente un dato di fatto: la pandemia ha rimosso un blocco culturale, prima ancora che tecnologico, che impediva gli sviluppi che osserviamo oggi, e probabilmente siamo solo all’inizio di una trasformazione più ampia. Nella nostra indagine abbiamo posto in primo piano soprattutto due variabili: l’intensità del lavoro e la flessibilità. Il lavoro da remoto viene utilizzato di norma da due a tre giorni la settimana, c’è però una grande varietà in termini di flessibilità, perché in alcune aziende è calcolato su base settimanale, in altre mensile, altre volte addirittura il lavoratore ne può usufruire quando vuole nel corso dell’anno, pur che non si superi una certa soglia, per esempio 30 giorni consecutivi.

In sintesi si può dire che la pandemia ha prodotto indirettamente una rivoluzione culturale con effetti sulle pratiche di lavoro, sui modelli organizzativi e sulle soluzioni tecniche adottate nei processi di lavoro. Le condizioni perché questo avvenisse erano già mature dal punto di vista tecnologico, altrimenti la trasformazione non sarebbe avvenuta o perlomeno non con questa rapidità.

Nei prossimi due capitoli esploreremo più da vicino questi effetti, prima dal lato delle imprese e poi da quello del mondo del lavoro.