Smartphone, tablet, computer, televisori, playstation sono ormai entrati a far parte della nostra vita quotidiana e ne scandiscono il tempo con l’apparente ineluttabilità che avevano nel passato le ore di luce del giorno.
Ciò che tutti questi strumenti hanno in comune è la presenza di uno schermo - piccolo o grande - e questo ci conduce a parlare di “tempo schermo” complessivo, ovvero il tempo della nostra vita che passiamo ad osservarli. Coloro che si occupano di educazione da anni si interrogano su come sfruttare al meglio le potenzialità di questi strumenti, ma sempre più si interrogano anche su quali trasformazioni comportano sulle menti malleabili dei più piccoli.
Ce ne parla Simone Lanza, che oltre ad essere maestro di professione, ha svolto un dottorato di ricerca nel nostro Ateneo e di recente ha pubblicato una monografia che ha richiamato molta attenzione su questo tema.
Nel suo libro descrive la scena di una bambina che è combattuta tra il godersi un giro su una bellissima giostra e il dedicare attenzione al suo telefono. La domanda che lei pone è: che ne è del desiderio nell’epoca della proliferazione degli schermi? È interessante secondo me la risposta che oggi può dare non uno psicoanalista ma un educatore.
Quell’immagine è la metafora dell'infanzia di oggi, che nel momento in cui vive un'esperienza è al tempo stesso distolta da quell'esperienza dall’uso che lei stessa o gli adulti di riferimento fanno dello schermo. Che cosa sta facendo in quel momento la bambina? Probabilmente entrambe le esperienze contemporaneamente, ma in un certo senso né l’una né l’altra. Walter Benjamin avrebbe parlato a questo proposito di Erleben, cioè di vivere qualcosa, ma in misura superficiale e non in quella dimensione profonda che è invece il vivere un'esperienza che si deposita, qualcosa che dura, qualcosa che permette un apprendimento. Il tedesco usa per questo secondo tipo di esperienza la parola Erfahrung, che peraltro contiene in sé anche il significato di viaggio. Qualsiasi esperienza infantile è un viaggio di arricchimento, ma solo se può essere assimilato e raccontato.
È su questa soglia che si gioca secondo me anche il ruolo dell'educatore. L'educatore, per usare una definizione di Buber che mi è cara, deve “trasmettere una una selezione del mondo”, cioè deve mettere a disposizione di chi sta crescendo ambiti che permettano esperienze di apprendimento ricche. Bambini e bambine più piccole hanno bisogno proprio di mettere in bocca, di assaggiare, di capire, di ascoltare con tutto il corpo l’ambiente circostante. Vivere un’esperienza digitale attraverso un piccolo schermo significa in primo luogo deprivare la dimensione multisensoriale, l’ampiezza dell’esperienza, in secondo luogo comporta anche una grande omologazione perché tutti vivono quasi le stesse sensazioni. Per la Montessori per esempio è un punto cruciale il ruolo dei sensi nello sviluppo delle funzioni cognitive superiori, prime fra tutte l'attenzione e il linguaggio.
Il suo lavoro la porta a diretto contatto con i bambini in età evolutiva, trova riscontri di questa trasformazione?
Quello che osserviamo a scuola è che sempre più bambini hanno problemi con la motricità fine, banalmente fanno fatica per esempio ad allacciarsi le scarpe: la dimensione della manualità è fondamentale e ha echi anche sullo sviluppo del linguaggio, sulla capacità di mantenere l’attenzione, ma anche ci accorgiamo per quanto riguarda le competenze relazionali, della diminuita capacità di reggere la frustrazione, di accettare un “no” ad una richiesta, di stare in relazione agli altri nel gioco all’interno di un sistema di regole.
Alle elementari per esempio abbiamo ora le classi che hanno sperimentato durante gli anni precedenti lunghi periodi di isolamento per il covid e ci rendiamo conto che bisogna proprio insegnare a giocare insieme. Può sembrare banale ma in realtà la fase del gioco è un momento importantissimo di apprendimento non soltanto per gli esseri umani ma per tutti i mammiferi; questi bambini invece sono abituati a divertirsi in modo isolato, con i videogiochi o i giochini degli smartphone. Nella mia esperienza professionale il gioco ha un valore particolare perché su questo svolgo percorsi in classe e anche di formazione per i colleghi. Dedico molta attenzione all’uso di giochi strutturati a scuola perché hanno una funzione di integrazione, di inclusione, di potenziamento delle capacità cognitive e di auto-regolamentazione: sotto questo aspetto ci siamo resi conto che con le ultime generazioni si devono abbassare le aspettative rispetto al passato.
Le grandi menti che hanno fondato le big tech della Silicon Valley hanno avuto spesso un’educazione montessoriana o steineriana e non supertecnologica e altrettanto hanno previsto di fare con i propri figli.
Esattamente, il paradosso è che loro che sono stati così bravi a portare la tecnologia in tutte le case poi per i loro figli hanno fatto in modo che crescessero o in scuole dove non c’erano schermi o hanno concesso lo smartphone solo dopo i 14 anni. Quindi sono consapevoli del potere di questi dispositivi o di queste applicazioni di depotenziare le capacità umane. Non è però solo una questione che attiene ai grandi nomi della Silicon Valley, ci sono già delle ricerche negli Stati Uniti in cui viene stimato una sorta di “digital divide” al contrario: negli ultimi dieci anni, per i bambini da 0 a 8 anni, è stato verificato che i bambini delle classi più povere hanno raddoppiato il tempo passato davanti agli schermi, mentre per le famiglie ricche è rimasto costante. Il mito della capacità innata dei “nativi digitali” di adoperare le tecnologie digitali nel modo appropriato, di entrare per così dire in “osmosi” con la tecnologia, non ha fondamento, benchè moltissime ricerche scientifiche lo ripetono anche in assenza di prove. Del resto il termine “nativi digitali” è stato coniato da un venditore di videogiochi, Mark Prensky.
È possibile secondo lei arginare questa tendenza?
Non solo è possibile, ma ci sono molti segnali che si vada proprio in questa direzione. In Italia abbiamo i patti digitali di comunità a cui aderiscono sempre più genitori. Nell’ultimo convegno sul tema - che abbiamo da poco concluso in Bicocca - c’erano parlamentari di diversa appartenenza politica impegnati nella presentazione di progetti di legge per limitare l’accesso a questi strumenti, soprattutto ai social. Cresce la consapevolezza e non solo in Italia. Si stima che nel nostro Paese ci siano già circa centomila adolescenti con sindrome di Hikikomori. Il tema cruciale sarà chi stabilisce le regole: se saranno soggetti come Meta o simili, allora saranno regole fatte ad uso e consumo di queste grandi aziende; se le farà la collettività, la società civile, intellettuali onesti, allora si potrà pensarle davvero per tutelare i nostri figli e il loro futuro.