L'arte è una forma di espressione delle abilità creative e dell’immaginazione dell’essere umano, che può in alcune circostanze, assumere il ruolo di “terapia” e quindi essere usata a sostegno della salute psicofisica delle persone con vissuti particolarmente traumatici. In questo caso essa porta benefici come alleviare lo stress, accrescere l’autostima, curare i disagi psicologici... Le ricerche svolte da Nataliia Borodina, visiting professor dell’Università Politecnica di Odessa, vanno in questa direzione. Nataliia lo scorso febbraio è approdata al Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione “Riccardo Massa”, grazie al programma Bicocca per la Pace, nato a sostegno di studenti, ricercatori e docenti in servizio presso Università o Centri di ricerca ucraini, per consentire il proseguimento delle loro attività di formazione attraverso borse di studio e fellowship grant.
Nell’ambito di questo progetto Nataliia ha approfondito le tematiche relative alla salute mentale e la cura dei rifugiati attraverso l’arteterapia e l’artivismo, ovvero l’opera d’arte che cerca di smuovere lo spettatore con un contenuto esplicito. L’abbiamo interpellata per sapere qualcosa di più sulle sue ricerche.
L’arte può diventare uno strumento utile a ricostruire l’equilibrio e l’identità di persone che vivono situazioni di disagio mentale in seguito a particolari traumi?
L'arte ha due obiettivi: fornire alle persone uno "spazio sicuro" e insegnare ad addentrarsi nelle profondità del trauma. Le discussioni su quale percorso artistico sia più utile vanno avanti sin dai tempi di Aristotele che scelse la tragedia come un'opportunità per sperimentare la catarsi. In un contesto di guerra la situazione è molto più complicata. Le popolazioni rimaste nel paese specifico che attraversa un conflitto, perdono il loro equilibrio a causa delle continue esplosioni e distruzioni che quotidianamente avvengono intorno alla popolazione. I rifugiati, che sono l’altro lato della catastrofe che una guerra causa, perdono la loro identità, costretti a lasciarsi alle spalle le loro vite. In un altro paese, in qualità di rifugiato infatti, non sei più una persona, ma il “numero A027” in una fila infinita di persone in coda per la regolarizzazione dei documenti. Non è sufficiente suggerire alle vittime di eseguire semplicemente un esercizio di arteterapia, ma il lavoro che ci si presenta davanti è decisamente più complesso e polimorfo.
Quali sono i mezzi a disposizione?
Quando lavoravo al MHPSS (Mental Health and Psychosocial Support, WHO), dopo un periodo iniziale in cui ho testato vari metodi di sostegno psicologico ed educativo, ho trovato una prima strada che era quella di offrire tour gratuiti ai rifugiati presso le principali attrattive presenti nelle città in cui operavo. L’idea nasce dalla necessità di trovare degli strumenti che permettessero alle persone rifugiate di familiarizzare con la storia e la cultura della città ospitante. In questo modo per loro quella non era più solo una città dove stavano in coda per infinite ore per ottenere un visto, ma uno spazio familiare, sicuro, anch’esso con pagine di storia alle spalle e problematiche antiche. Questo è stato il primo passo per permettere alle persone di riconquistare un senso di identità e favorire l’adattamento ad un nuovo contesto culturale e identitario. Il secondo strumento che ho cercato di implementare è stato quello di ripristinare i rituali, come riunirsi con la propria comunità per organizzare un concerto o una gara sportiva. I rituali sono una parte fondamentale della cultura condivisa di un popolo o di una comunità. La messa a punto di queste due pratiche è stata parte integrante di una strategia di sostegno psicologico completa.
Già dopo questi step ho potuto iniziare a introdurre gli esercizi di arteterapia: come per esempio preparare locandine per una manifestazione contro la guerra, o scrivere dei biglietti di auguri per chi ancora vive nei territori occupati. L’importante era che questi esercizi non fossero appunto solo "di auto-recupero", ma creassero una connessione con chi era rimasto ancora nella terra di origine. Non bisogna dimenticare infatti che tutti i rifugiati vivono con il terribile peso sulla coscienza di aver lasciato il proprio paese in difficoltà.
Rispetto all’opera d’arte tradizionale, l’artivismo come riesce ad aiutare e/o influenzare le persone che vivono particolari situazioni di disagio?
L’arte contemporanea invita il fruitore al dialogo, ma se di solito l’osservatore può spaziare fra diversi significati, provando a indovinare l’idea che sta alla base di una determinata opera d’arte, con l’artivismo “cadono le maschere” e il significato dell’opera appare subito chiaro. In questo caso la chiamata al dialogo viene realizzata in modo differente: è un invito a un’azione attiva di cambiamento, una chiamata a risolvere quel problema specifico al quale l’artista fa esplicito riferimento. L'artivismo è il progetto di “coloro che si prendono cura”. Tecnicamente si possono anche dipingere i fiori per la guerra, ma sarebbe un po’ fuori contesto. L’artivismo coinvolge facendo in modo che non ci si possa più voltare dall’altra parte pensando solo ai propri problemi.
In che modo il Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione ti ha supportato nello svolgimento delle tue ricerche sull’arte terapia? Come i tuoi studi si sono inseriti e hanno influenzato le attività/ricerche del Dipartimento?
Il Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione dell’Università di Milano-Bicocca mi ha invitato ad aprire un Blog su Facebook dove parlo delle mie ricerche sull’arte, partendo da situazioni di difficoltà delle persone che vivono in paesi in cui è in corso un conflitto o una guerra , o attraverso le storie dei rifugiati. Ho imparato molto da questa esperienza, trovando interessante il principio che viene applicato alla base, ovvero “nessuna ricerca senza aiuto”, per cui i rifugiati non sono solo considerati “oggetto di studio” ma anche persone da sostenere. Dal canto mio spero di poter essere stata d’aiuto al Dipartimento, fornendo ulteriori spunti e metodologie di approccio utili a comprendere da vicino la realtà di tutti coloro che subiscono un conflitto e scappano da esso per ricostruirsi una nuova vita.