La disuguaglianza nella prospettiva della psicologia sociale - Bnews La disuguaglianza nella prospettiva della psicologia sociale

La disuguaglianza nella prospettiva della psicologia sociale

La disuguaglianza nella prospettiva della psicologia sociale
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Il tema delle disuguaglianze e del prezzo che comportano per la società è stato ampiamente trattato sia dal punto di vista dell’economia che da quello della sociologia. Meno comune, e quindi potenzialmente più originale, è il contributo che a questa analisi può dare lo sguardo della psicologia grazie allo studio dell'interazione tra individui e gruppi sociali. Chiara Volpato, docente senior di psicologia sociale nel nostro Ateneo, ci aiuta a far luce su questa prospettiva.

Che impatto ha una distribuzione delle risorse molto sbilanciata all’interno di una comunità?

Le conseguenze sono tante, sia a livello individuale, per ciò che riguarda il benessere dei singoli, sia a livello collettivo. Sono state studiate in particolare dagli epidemiologi sociali le conseguenze sulla salute, come la diffusione dell’uso di psicofarmaci, ma anche l’aspettativa di vita e la mortalità infantile sono risultate correlate all’aumento della disuguaglianza. In generale con il crescere di questo parametro si abbassano tutti gli indici di benessere, perché una parte della popolazione si muove in una condizione di precarietà esistenziale e questo si riflette sia sul piano fisico che sul piano psicologico. Possiamo citare l’aumento del conflitto sociale, il crescere del razzismo, l’impiego di maggiori risorse e maggiore violenza per mantenere l’ordine pubblico. Non dimentichiamo che le società in cui c’è più violenza, per esempio contro le donne, sono quelle in cui le donne hanno uno status sociale più basso; è comprovata anche la relazione tra crescita delle disuguaglianze e diminuzione della partecipazione alla vita civile e politica, direi quasi la diminuzione di interesse per la democrazia.

Qualche anno fa abbiamo condotto uno studio in cui al campione di persone intervistate veniva chiesto “quanto sei preoccupato per l’aumento delle disuguaglianze?”. Tra quelli che appartenevano alla classe media hanno risposto in senso affermativo coloro che erano più disposti ad impegnarsi politicamente, viceversa le persone economicamente più disagiate, anche quando erano preoccupate per questo problema, dimostravano un assoluto distacco dalla partecipazione. La delusione e la sfiducia erano tali in loro che manifestavano un atteggiamento di completa passività. In apparenza è paradossale che le persone da cui ci si potrebbe aspettare una maggiore disponibilità all’impegno per cambiare di fatto siano quelle più lontane da questa prospettiva, ma è proprio quello che riscontriamo anche nella partecipazione al voto.

Lei parla di miti fondativi delle disuguaglianze. Ce li vuole spiegare?

Come già osservava Machiavelli, un assetto politico non si regge mai sulla sola forza, ha bisogno anche di consenso; questo consenso, questa adesione inconsapevole, viene sostenuto in misura significativa da una sorta di miti. Nella nostra società fortemente improntata all’individualismo, uno di questi miti è la meritocrazia: chi arriva in alto se lo merita, semplicemente come chi resta in basso. Questa narrazione tende ad occultare completamente le disuguaglianze di partenza. Casi rari di persone che hanno avuto successo per caratteristiche personali, positive o negative, vengono assunti a modello per legittimare una realtà che a livello statistico racconta il contrario.

Un altro mito collegato a questo, infatti, è quello della mobilità sociale. In passato, per esempio nel secondo dopoguerra, ci sono stati dei momenti in cui la mobilità sociale è stata un fattore attivo, con effetti sociali importanti. Da tempo invece la mobilità sociale è praticamente ferma, anzi, se c’è una mobilità sociale è quella discendente: è risaputo che le nuove generazioni si confrontano spesso con condizioni economiche più difficili di quelle dei loro genitori. Uno studio recente ha mostrato come più le persone aderiscono al mito della mobilità sociale, meno hanno voglia di lottare contro la disuguaglianza. Riporre fiducia in questa credenza garantisce dal rischio di emarginazione, offre una sorta di accettazione sociale e consente un investimento sul futuro, ma questo investimento si concentra tutto a livello individuale e per nulla a livello di lotta collettiva: quello individuale diventa l’unico orizzonte possibile di riscatto.

Qual è il riflesso di questa situazione a livello psicologico?

Quando una persona si trova in una situazione di precarietà economica ed esistenziale, la sua mente è catturata da questa condizione: diversi studi condotti in India e negli Stati Uniti mettono in evidenza come la mente delle persone finisca per essere così assorbita da avere poche energie cognitive e creative da spendere su altri fronti. Paradossalmente quindi il restringersi dell’orizzonte cognitivo sottrae risorse per trovare soluzioni, sia a livello personale che a livello politico collettivo.

Quello che è interessante è che si assiste a qualcosa - che in realtà non è nuovo storicamente - che definirei “interiorizzazione della sconfitta”: io valgo meno e quindi merito meno, sono più portato ad accontentarmi di qualche gratificazione che mi viene data. Per esempio posso accettare come consolazione che mi siano attribuite caratteristiche di “calore” invece che di competenza: è sempre successo con le donne, ma è stato riscontrato anche da ricerche fatte negli Stati Uniti sulla condizione degli afroamericani.

Un altro dei “miti” o luoghi comuni, se vogliamo dir così, è quello che le disuguaglianze sociali siano connaturate alla natura umana e quindi inevitabili

Sono convinta che le disuguaglianze siano costruite socialmente, allo stesso modo si può anche costruire le uguaglianze, è chiaro che ci vorrebbe molto impegno e un pensiero diverso da quello a cui siamo abituati. Le società di cacciatori e raccoglitori, per esempio, prevedevano forme di controllo nei confronti di chi voleva assumere un ruolo troppo importante. Per venire a tempi più recenti, dopo la Seconda guerra mondiale, in quelli che sono definiti “i trenta anni gloriosi”, sono state create le condizioni per una società molto meno disuguale di quella attuale; le politiche che sono state implementate a livello di tassazione progressiva e di welfare sono state molto importanti, dunque non bisogna assumere come fatto naturale quello che è una costruzione sociale e culturale anche perché per secoli la schiavitù è stata ritenuta assolutamente naturale e probabilmente l’immaginario, le concezioni sociali dell’epoca erano tali per cui nessuno pensava che ci sarebbe potuta essere una società senza schiavitù.