Le opinioni in merito all’impatto dell’intelligenza artificiale sulle dinamiche delle nostre relazioni e sui contesti organizzativi sono contrastanti. Alcuni esperti ritengono che i Chatbot stiano diventando i nostri nuovi amici, che possano aiutarci nel prevenire la solitudine umana, nel rafforzare l’autostima, nel mantenere o migliorare le abilità sociali. Altri sostengono l’esatto contrario: rischierebbero di portarci a relazioni umane meno sicure, instabili e insoddisfacenti.
A questo vanno ad aggiungersi i possibili effetti sul mondo del lavoro, che sono al centro delle preoccupazioni per un aumento delle disuguaglianze sociali.
Abbiamo chiesto a Maria Chiara Carrozza, presidente del Consiglio Nazionale delle Ricerche e docente di Bioingegneria industriale presso il dipartimento di Psicologia del nostro ateneo, di aiutarci a capire cosa possiamo aspettarci.
Prof.ssa Carrozza, esiste il rischio che la simulazione di conversazioni realistiche con le intelligenze artificiali possa sostituire le relazioni con gli esseri umani?
Benché le potenzialità dell’intelligenza artificiale, soprattutto dell’IA generativa, siano sbalorditive, a mio avviso dobbiamo considerare l’aspetto dell’embodiment. Se è vero che l’IA generativa è in grado non solo di produrre testi, immagini, video, composizioni musicali, ma anche di discernere il tono della voce, le emozioni, i contesti, le specificità culturali, ritengo che essa si scontri con il limite della mancanza di una fisicità. Le nostre conversazioni, le nostre espressioni linguistiche e, in generale, le nostre relazioni sono profondamente radicate nella nostra corporeità. Non a caso, il concetto fondamentale di embodiment permea da lungo tempo diversi settori del sapere, dalla linguistica alla psicologia, dall’epistemica alla robotica.
Questo limite è stato in parte superato grazie alla robotica, capace di dare un corpo all’intelligenza artificiale: qualche mese fa ChatGPT è stata integrata per la prima volta in un robot umanoide. Ciononostante, negli scambi con i Chatbot, tutta quella comunicazione non verbale, che passa attraverso la gestualità, la mimica e la prossemica, tende a perdersi. Per ora mi pare che i sistemi di IA tendano ad essere percepiti non come interlocutori, bensì come strumenti o, nel migliore dei casi, come assistenti. Ma soltanto le sperimentazioni con gli utenti ci daranno una risposta sulla percezione, che, essendo una funzione cognitiva superiore, ha la sua soggettività. Per me questo è un oggetto di studio importante.
Può raccontarci alcuni dei progetti di ricerca che sta seguendo e che combinano intelligenza artificiale e psicologia?
Negli anni più recenti ho approfondito gli studi teorici e sperimentali nel settore della neurorobotica, con particolare riferimento alla progettazione e realizzazione di sistemi integrati basati su tecnologie robotiche e di realtà virtuale per la somministrazione di terapie di neuroriabilitazione.
Quello della neuroriabilitazione è un ambito di ricerca e sviluppo affascinante e potenzialmente rivoluzionario, che offre prospettive di ricerca interdisciplinare, in cui le competenze di bioingegneria si integrano con quelle di neuroscienze e neuropsicologia.
Nel dettaglio, l’obiettivo delle mie ricerche è comprendere ed indirizzare gli effetti delle terapie robot-mediate per il recupero cognitivo e motorio da parte di soggetti che subiscono le conseguenze di eventi patologici gravi come l’ictus, migliorandone così la qualità di vita in modo sostenibile dal punto di vista economico, sociale ed ecologico. Per fare un esempio, i sensori e i sistemi robotici indossabili, adeguatamente integrati con algoritmi di intelligenza artificiale e con conoscenze pregresse dei parametri genetici e del profilo clinico del paziente, possono permettere di realizzare veri e propri strumenti per la somministrazione di terapie digitali, sulla base di diversi gradi di immersione del paziente nell’ambiente virtuale, facilitando la personalizzazione delle terapie e il coaching del paziente in tempo reale.
Quali misure secondo lei possono essere adottate per ridurre la dipendenza tecnologica nell'interazione uomo-macchina?
In quanto esperta di robotica e, in particolare, di robotica indossabile, ho sempre valutato positivamente l’interazione uomo-macchina e, nelle mie ricerche passate sugli esoscheletri e sulle protesi, ho tentato di rendere tale interazione sempre più simbiotica e bioispirata. Naturalmente l’interazione uomo-macchina può declinarsi in altre dimensioni, tra le qualirientra, purtroppo, anche la dipendenza tecnologica. Per arginare e prevenire l'uso patologico di questi strumenti, penso sia essenziale diffondere una consapevolezza dei benefici e dei rischi delle tecnologie, attraverso la sensibilizzazione e la regolamentazione, soprattutto tra i più giovani, che sono maggiormente vulnerabili. Nei loro confronti va posta la massima attenzione: oltre a educarli all’uso delle tecnologie, dobbiamo sostenerne lo sviluppo cognitivo ed emotivo e stimolarne la curiosità, incoraggiandoli ad esplorare altre sfere di interesse, come la natura, l’arte, le scienze umane.
Sul fronte lavorativo, in che modo le organizzazioni possono affrontare il rischio di disoccupazione tecnologica causata dall'automazione?
Nel ragionare sull’automazione e sulle tecnologie emergenti, personalmente preferisco sempre mettere in luce gli aspetti positivi e le potenzialità future: nel caso dell’IA, per esempio, sono evidenti i benefici in termini di produttività, efficienza e ottimizzazione delle risorse. Ad ogni modo, il rischio di disoccupazione tecnologica esiste e dobbiamo prenderne atto: le nuove tecnologie cambieranno diverse attività professionali ed occorre preparare i lavoratori al cambiamento. In tal senso, il mercato del lavoro sta già subendo trasformazioni radicali, giacché molte attività – non solo quelle più ripetitive e manuali – vengono progressivamente automatizzate, soprattutto ora che le nuove tecnologie possono svolgere attività sofisticate, basate sulla conoscenza, come la scrittura, la codifica e la ricerca.
Per rimanere competitive, le organizzazioni sono chiamate a fronteggiare questo cambiamento, attraverso la ridefinizione dell’organizzazione del lavoro, l’identificazione delle aree critiche e la formazione delle competenze specifiche per le professioni del futuro. In questo contesto ritengo siano essenziali percorsi di reskilling e upskilling, sullo sfondo di un engagement costante e trasparente delle proprie risorse.
Quali sono le competenze chiave che gli studenti dovrebbero sviluppare per affrontare l'evoluzione tecnologica in questi campi?
La rivoluzione tecnologica innescata dall’IA ci richiede uno sforzo collettivo per acquisire nuove e indispensabili competenze, attualmente indicate tramite il concetto di AI literacy, che ci consentono di capire, valutare e usare in modo sicuro, etico e critico i sistemi di IA. Oltre alle capacità strettamente tecniche e specialistiche, ci sono abilità trasversali che dovranno essere diffuse in modo capillare, come l’adattabilità, la flessibilità e l’apprendimento continuo. Quanto agli studenti, penso sia necessario che dispongano di una comprensione dell’informatica di base, oltre a solide conoscenze linguistiche e grammaticali, determinanti soprattutto nel campo dell’IA generativa. Altrettanto decisivi sono il pensiero critico e l’etica: le nuove tecnologie devono essere utilizzate in modo responsabile, consapevole e informato.