«A uno studente della facoltà di medicina o comunque a chi abbia il desiderio di “prendersi cura degli altri”, io dico: ricordati che partire per missioni umanitarie può essere non solo un sogno nel cassetto ma anche un percorso e una carriera realizzabile.» Questo il consiglio di Ileana Boneschi, laureata presso il corso di Ostetricia di Milano-Bicocca, vincitrice del premio BicoccAlumni 2022. Il riconoscimento, giunto alla seconda edizione, è stato ideato per premiare i laureati Bicocca che si distinguono nella loro vita professionale dando così prestigio all’Ateneo. A lei, chiediamo di raccontarci la sua storia.
Dottoressa Boneschi, qual è il contributo di Milano-Bicocca alla sua formazione?
Mi sono laureata nel 2010 nel corso di laurea in Ostetricia di Monza. Una formazione che mi ha dato degli strumenti fondamentali per il mio lavoro, tra cui sottolineo il forte approccio clinico e l’importanza della semeiotica, che è qualcosa per cui Monza brilla in tutto il panorama italiano. Nella medicina di oggi dove l’aspetto strumentale la fa da padrone, questo indirizzo del corso di Milano-Bicocca è una peculiarità importante perché si basa su “ciò che si può vedere con gli occhi e apprezzare con le mani”.
Altra cosa fondamentale è quella che definisco “l’identità di ostetrica” che ti formi, l’indipendenza e la deontologia che ti costruisci. Questa è stata la base di tutto il percorso della mia carriera: ritornare a quell’identità ostetrica mi ha aiutato anche a definire e coordinare la quantità di risorse umane utili per un progetto e sapere in quale posizione metterle.
Quando è nata l’idea di partire?
La scelta di partire è avvenuta in realtà ai tempi del liceo. Volevo fare qualcosa per la cura delle persone: da lì l’idea di iscrivermi al corso di laurea in medicina per poi partire e svolgere la professione in contesti umanitari. Al liceo, mi sono innamorata del lavoro di Gino Strada e la mia intenzione era diventare un chirurgo. Per poco non sono riuscita a entrare a medicina...solo 0,25 di punto mancavano al mio sogno! Mi sono iscritta però al corso di Ostetricia e ho intrapreso questi studi sempre nell’ottica di partire al più presto. E così ho fatto: dopo la laurea, son stata volontaria in Kenia per un periodo. Sapevo però che per svolgere quel lavoro come una professionista occorreva prima maturare un’esperienza in un contesto sviluppato come quello italiano. Ho iniziato allora a lavorare in diversi ospedali italiani prima di riuscire a entrare in Medici senza frontiere nel 2014. Attualmente lavoro come ostetrica clinica all’ospedale di Lecco, in Sala Parto.
Cosa le manca di più di quelle esperienze?
Sentire di essere al posto giusto, il posto dove il mio operato sarebbe più necessario. Inoltre mi manca l’aspetto di condivisione della cultura, della quotidianità con i locali. Tra l’altro, Medici senza frontiere è un contesto internazionale quindi offre anche il piacere di lavorare con colleghi di tutte le nazionalità. Un altro aspetto importante per me è l’incontro con lo staff nazionale, sempre arricchente: lavorare con colleghi che sono persone che nonostante vivano le pene e la sofferenza dei luoghi dove operiamo hanno la forza di lavorare e prendersi cura di tutti, anche dei loro “nemici”. Questa è una forza incredibile, che ti rimane impressa nella mente e nel cuore.
Pensa di ritornare a operare in contesti di guerra?
Mi piacerebbe molto. Ora però ho una famiglia, due figlie ancora piccole: devo valutare il mio futuro tenendo presente le loro esigenze.
Una storia che si porta sempre nel cuore?
Ce ne sono tantissime! Ce n’è una che credo possa raccogliere tutti gli elementi di difficoltà di chi cerca di sopravvivere in contesto di guerra.
Ero in sud Sudan, in un ospedale che cercava di ripartire nelle sue attività dopo che le truppe nemiche l’aveva completamente raso al suolo. Pian piano la popolazione cominciava a tornare in quel luogo e anche noi operatori a riprendere il nostro lavoro. Questa fase di riapertura dell’attività era resa difficile non solo perché mancavano materiali e strumenti, già difficili da reperire, ma eravamo anche nella stagione delle piogge, quindi i pazienti arrivavano con parecchia difficoltà all’ospedale.
Un giorno è arrivata in sala parto una donna in travaglio, al suo quinto figlio, con travaglio ostruito perchè complicato dalla posizione “di gomito” del bambino. Sapevo che in quel caso l’unica soluzione praticabile era il taglio cesareo in urgenza, ma lì non c’era nessuna possibilità di effettuarlo. Avremmo dovuto trasferire la paziente nell’ospedale di Medici senza frontiere più attrezzato ma lontano. A quel punto, contro ogni aspettativa, questa donna, dopo ore di travaglio è riuscita a partorire in maniera naturale. Purtroppo il feto non era più vitale ma lei è sopravvissuta. Allora ho pensato come spesso in questi contesti faccia la differenza tra la vita e la morte avere un fisico forte e delle risorse proprie.