Se ci innamoriamo di un libro, è sicuramente anche merito loro. Stiamo parlando dei traduttori, quegli artigiani invisibili delle parole, che con maestria e sapienza ci permettono di scoprire autori stranieri, spesso anche molto lontani da noi, dandogli voce ma senza tradirne l’autenticità. Ma come ci si prepara ad un lavoro di traduzione?
A questa ed altre curiosità risponde Silvia Pozzi, docente di lingua cinese e presidente del Corso di Laurea in Comunicazione Interculturale, nonché direttore scientifico del laboratorio “Officina di Traduzione Permanente” di Milano-Bicocca, attraverso il racconto della sua personale esperienza e visione del mestiere del traduttore.
Silvia, come hai iniziato il lavoro di traduzione?
Mi sono cimentata in traduzioni durante tutto il mio percorso di studio, dalla laurea al dottorato. Dapprima, ho iniziato con un ruolo di consulente in quanto competente in letteratura cinese, quindi sono passata a scrivere le schede di lettura per case editrici. Il compenso era davvero simbolico, ma non ho mai rifiutato perché capivo che sarebbe stato utilissimo per allargare le mie conoscenze (spaziavo dalla letteratura per bambini ai romanzi fantasy). Il primo vero lavoro è arrivato con Feltrinelli che mi ha affidato la traduzione del romanzo “Brothers” di Yu Hua, uno dei più grandi scrittori del panorama cinese e mondiale, autore pluripremiato.
Qual è la chiave per una traduzione ben fatta?
Si pensa sempre alla conoscenza della lingua di origine, quella in cui il libro è stato scritto. Senza dubbio è la base. In realtà, però, la chiave della traduzione è la competenza della lingua italiana. Per quanto mi riguarda, continuo a studiare l’italiano e a imparare nuove sfaccettature e sfumature, registri, lungo assi temporali e geografici: tutto questo contribuisce a rendere ricca e naturale la traduzione.
Come ti prepari per affrontare una traduzione e come si svolge?
Innanzitutto leggo il più possibile le altre opere dell’autore del libro che devo tradurre. Quindi leggo ovviamente l’opera da tradurre. Poi mi confronto con traduzioni di libri sempre dello stesso autore ma fatte da altri colleghi, così scopro immagini, specificità di voce dell’autore già colte e rese in italiano. Scoprire i modi di dire, familiarizzare con la sua scrittura è importante per cogliere anche il sottotesto, che altrimenti rischia di sfuggire. Occorre pensare che uno scrittore quando scrive ha a disposizione tutto il lessico possibile, può anche inventare parole nuove, mentre il traduttore no, deve attingere da un bacino di parole più ristretto e cioè tutti i corrispettivi possibili delle scelte lessicali operate dall’autore. Il risultato è quindi un lavoro possente, poderoso e continuo, dove la curiosità è fondamentale. Un fattore la cui importanza ho scoperto negli anni è la revisione: credo sia meglio condividere con altri, e io lo faccio con il mio gruppo di lavoro, oltre che con i redattori della casa editrice.
Quali le particolarità della lingua cinese?
Il cinese è una lingua che usa molto la paratassi, con pochissime subordinate. La linearità della costruzione, mentre per i cinesi è preziosa, per noi italiani risulta spesso noiosa. Occorre quindi cogliere il suono, la voce dell’autore attraverso le nostre scelte. Una tentazione forte è cercare di usare un italiano ricercato, alto, quando in realtà il cinese non lo richiede. All’inizio poi, se si commettono errori bisogna saper cogliere le critiche costruttive: un errore frequente è tradurre scegliendo parole che ci piacciono. Io, per esempio, traducevo puntualmente l’aggettivo “chiuso” con “serrato”, quando magari altre sfumature sarebbero state più adatte. C’era molto del mio, ma poco dell’autore, insomma.
Conoscere la cultura cinese quanto peso ha per te nel lavoro di traduzione?
Credo sia assolutamente imprescindibile. La traduzione di una lingua è la traduzione di una cultura. Questo vale per le lingue europee e tanto più per un mondo composito e vario come quello cinese. Occorre conoscere a fondo una cultura, per decidere magari di non tradurre tutto o in parte, o di addomesticare un concetto. Un piccolo esempio? È fondamentale che il traduttore di lingua cinese sappia precisamente come appare un piatto, come si cucina, magari assaggiarlo anche, per poi decidere come descriverlo.
Quale soddisfazione ti dà un lavoro ben fatto?
Tradurre per me non è solo un lavoro mentale, è anche un lavoro dei 5 sensi. Il testo infatti, filtra attraverso di te, lo ricrei, e per crearlo devi simulare una proiezione di te stesso: insomma, vivere un’altra vita. Quando traduco sono risucchiata in un micromondo, tale per cui alla fine del lavoro vivo quasi un lutto, perché sto lasciando qualcosa che ha fatto parte di me per diverso tempo. Considera che un lavoro di traduzione richiede almeno un anno, in cui il libro ha vissuto con te tutti i giorni, perché anche quando non traduci il libro lavora dentro di te.
Qual è il libro che hai amato di più tradurre e quello che vorresti tradurre in futuro?
Senz’altro il primo e tutti i libri di Yu Hua, perché è letteratura a livello mondiale non solo cinese. Questo scrittore ha uno stile con cui io mi sento a mio agio, fatto di registri colloquiali e molti dialoghi. Ha uno stile asciutto, non ricercato, ma che sa intercettare la “pancia”, i sentimenti e le emozioni del lettore, in maniera unica. È anche il più amato dagli italiani. Il mio sogno è tradurre un libro che finalmente entrerà nelle classifiche, un apripista. Non è ancora scattato il corto circuito che farà apprezzare la letteratura cinese a noi italiani.
Mi auguro che arrivi il libro che ci incanta, ci assorbe, ci trascina, che non ci sforziamo di leggere, che ci fa innamorare.