All’ottavo scrutinio, parlamentari e delegati delle Regioni hanno confermato Sergio Mattarella come Presidente della Repubblica. Un risultato a cui si è giunti dopo una settimana di votazioni. Settimana ricca di avvenimenti, che abbiamo ripercorso con Marina Calloni, professoressa di Filosofia Politica e Sociale.
Marina Calloni
C’è sorpresa per la rielezione di Mattarella, considerando i suoi ripetuti appelli ad evitare un secondo mandato?
Nolente, Mattarella è stato riconfermato... La tentazione di commentare con un po’ di fatalismo e sarcasmo l’epilogo dell’elezione del “nuovo” Presidente della Repubblica è però forte. È facile rimandare ad alcune citazioni letterarie: dal “Se vogliamo che tutto rimanga com'è, bisogna che tutto cambi”, come ricordava Tancredi nel Gattopardo, fino al noto motivo “Molto rumore per nulla” nella commedia shakespeariana. Per acclamazione parlamentare Mattarella ha riottenuto il ruolo che ha già ricoperto per sette anni. All’ottava votazione ha ricevuto ben 759 preferenze, vale a dire il 77,2% dei 983 realmente votanti (in totale i rappresentanti di Senato, Camera dei deputati e 58 eletti delle Regioni per assicurare la rappresentanza di minoranze sarebbero stati 1009). Solo Pertini, eletto al 16esimo scrutinio con ben l’82,3% di preferenze, fece meglio di lui. La liturgia parlamentare termina così dopo una settimana fatta di colpi di scena, di veti incrociati paralizzanti, di nomi bruciati prima di essere detti, nel vortice di un falso movimento. Le forze politiche attuali non hanno saputo costruire una previa strategia elettiva, tanto da giungere a una riconferma. Quel che di fatto è emerso è una riconferma, ovvero la palese crisi dei partiti nella mancanza di strategie dalle ampie visioni e l’evidente sconnessione con la società e le istituzioni. Era stata proprio questa la ragione per la quale Mattarella aveva affidato l’incarico di formare il governo a Mario Draghi, conoscitore delle istituzioni nazionali/ europee/ internazionali e che per via dei ruoli ricoperti non può essere semplicemente ridotto a tecnocrate o banchiere. La riconversione condivisa su Mattarella è stata una facile non-scelta, perché obbligata. Il laconico commento di Mattarella – “farò del mio meglio” – la dice lunga.
Sergio Mattarella
Anche Napolitano era stato rieletto. Ci sono differenze?
Il ricorso all’ottavo scrutinio per riconfermare la presidenza a Matterella differisce tanto dai precedenti casi della cosiddetta “prima Repubblica”, quanto dalla vicenda di Napolitano, rieletto nel 2013 al sesto scrutinio con 738 di voti (73,2%), ma dimessosi dopo soli due anni, nel 2015. La rielezione di Mattarella è stata certamente dovuta a un mancato accordo preventivo fra i maggiori partiti (nonostante la scadenza naturale del mandato fosse conosciuta già da 7 anni) e dalla paura per un pericoloso stallo dalle gravi conseguenze socio-politico-economiche. Tuttavia, la rielezione è stata dovuta – a mio parere – ad una sorta di “richiesta dal basso”, che in seconda battuta si è poi trasformata in una richiesta formale mediante una visita al Quirinale da parte dei leader parlamentari della maggioranza di governo e dei delegati delle Regioni. Nel 2015 l’elezione di Mattarella non era stata particolarmente condivisa, tant’è che fu eletto al quarto scrutinio con solo il 65,9% delle preferenze. La sua popolarità è tuttavia cresciuta nel corso degli anni, al punto che recenti sondaggi hanno indicato nei suoi confronti un indice di fiducia fra gli intervistati del 77%. L’apoteosi era già avvenuta alla Scala con l’“acclamazione popolare” e la richiesta di un bis, in questo caso non indirizzato ad un artista, bensì rivolto a un uomo politico, un evento assai raro in Italia. A partire dal sesto e poi dal settimo scrutinio, è emerso con chiarezza il nominativo di Mattarella, senza che ci fosse stato un “ordine di scuderia”. Si è trattato di un chiaro avvertimento ai leader dei partiti da parte di parlamentari e delegati regionali, contro logiche che non rappresentavano più il “sentire comune”. Ma al di là di posizioni populiste, quale critica del “popolo” contro le élite al potere, si aprono ora nuovi scenari e proposte per riforme costituzionali che portino all’elezione diretta del Presidente della Repubblica, secondo modelli di presidenzialismo, dove sono i cittadini a votare i candidati che si presentano sulla base di specifiche campagne elettorali e promozione di programmi politici.
In una situazione di difficoltà come quella attraversata dal Paese, l’elezione del Presidente della Repubblica al primo scrutinio sarebbe stato un segnale importante di unità d’intenti, come avvenuto in altre occasioni nel passato (Cossiga e Ciampi). Come mai le forze politiche non hanno saputo trovare un’intesa prima?
In Italia, l’elezione del Presidente della Repubblica – che non è diretta, bensì parlamentare – è sempre avvenuta grazie a previ accordi, come dimostrano i casi di presidenti eletti al primo scrutinio. Accadde nel 1985 con Cossiga che fu subito nominato con il 75,4% dei voti, a seguito di un accordo tra DC, PCI e PSI, ovvero tra i maggiori partiti del tempo. Lo stesso avvenne per l’elezione di Ciampi nel 1999 col 70,6% di voti, grazie al supporto dichiarato di un vasto schieramento parlamentare, in quanto era considerato un candidato bipartisan. La quantità degli scrutini dipende quindi sempre dalla composizione parlamentare, dallo scontro interno tra correnti, dalla trasformazione dei partiti di maggioranza. Lo dimostra il caso di Leone, eletto nel 1971 al 23esimo scrutinio con solo il 51,4% dei voti e costretto a dimettersi nel 1978, poche settimane prima dell’inizio del semestre bianco. Ma l’accelerazione nell’elezione dei presidenti è anche dovuta a situazioni particolari, a crisi o emergenze, come era stato prima nel caso di stragi per terrorismo o di mafia e ora per via dalla congiuntura pandemica.
Come spiega il diverso atteggiamento dei partiti e quanto hanno pesato, nelle scelte dei singoli elettori parlamentari, i timori per le sorti della legislatura, considerando anche che il prossimo Parlamento avrà 345 componenti in meno?
Il veloce accordo per la riconferma di Mattarella (siglato in poche ore notturne, dopo febbrili incontri) è certamente dovuto allo sfinimento dei partiti, che durante la settimana elettorale hanno assunto atteggiamenti diversi, divisi nelle attività, seppur uniti (parzialmente) dalla stessa appartenenza alla coalizione di governo. I fronti di accordo si sono avvicendati e sovrapposti in modo caotico, secondo un disegno indecifrabile per i non addetti. Da una parte c’è stato un leader eccitato da una incredibile forza cinetica che ha proposto e disdetto un serie incredibile di candidati, in numero sparso e dalle diverse qualità, che sparivano prima di essere votati, senza che si capisse la logica intrinseca della proposta, se non motivata dalla lotta per la supremazia all’interno del proprio partito e dello schieramento di appartenenza. Dall’altra parte, ci sono stati leader politici che hanno adottato la tecnica dell’attesa, della disfatta e della resa del nemico, come fece il generale Fabio Massimo, detto il Temporeggiatore, nella guerra contro Annibale. La riconferma non è stata dunque solo dovuta alla capitolazione dei partiti per il mancato accordo, interessati a evitare il collasso del Governo, del Parlamento e del Paese, bensì anche ad una sorta di rivolta dei parlamentari contro l’indecisione e la confusione dei loro leader. L’auto-protezione è confluita nell’utilità della nazione che loro rappresentano. Ed è stato così che tanto per interesse proprio (evitando l’eventualità dello scioglimento con elezioni anticipate), quanto per interesse verso i cittadini in un momento di profonda crisi (dai quali sono stati votati), a partire dalla sesta votazione gli elettori in Parlamento hanno cominciato a votare con chiarezza il nome di Mattarella, a segno di protesta verso i loro leader, senza che ci fosse un ordine di partito. Con ciò è emersa la difficoltà stessa per i leader politici di controllare i propri eletti, a differenza delle forti ideologie che legavano nel passato i membri al loro partito. Il principio di fedeltà e lealtà verso gli elettori e il partito originario non è invece ciò che accomuna i partiti post-ideologici: a partire dall’attuale legislatura, ovvero dal 2018, ben 276 (29,2%) degli attuali 945 parlamentari hanno cambiato partito. Il gruppo misto si è così raddoppiato. Certamente la maggioranza dei parlamentari non vuole elezioni anticipate, ma un Governo il più stabile possibile.
Perché tanta difficoltà a scegliere un “nuovo” Presidente della Repubblica?
L’anomalia del Mattarella bis consta nel fatto che lo scontro e il mancato accordo fra partiti siano perlopiù avvenuti fra “colleghi di governo”, ovvero appartenenti ai 6 maggiori partiti che lo compongono, con l’appoggio esterno di oltre 10 partiti minori. Il Governo Draghi è una sorta di coalizione di “unione nazionale”, che si può comprendere solo in momenti di crisi straordinaria, se non addirittura di guerra, che viene ora rappresentata con la metafora del “nemico invisibile”, quale è il Covid 19. È evidente che la scelta de Presidente ha a che fare più con accordi politici che con una definizione peculiare della sua figura. La Costituzione italiana non dà indicazioni vincolanti a proposito delle sue caratteristiche, bensì dà perlopiù indicazioni sui compiti che dovrà assumere una volta eletto. L’articolo 83 afferma che “Il Presidente della Repubblica è il capo dello Stato e rappresenta l’unità nazionale”, mentre l’articolo 84 afferma che può essere “ogni cittadino che abbia compiuto cinquanta anni d’età e goda dei diritti civili e politici”. Deve giurare fedeltà alla Repubblica e osservare la Costituzione. L’enorme dibattito ha dunque riguardato l’individuazione di quella persona che potesse incarnare concretamente questa figura, sulla base di esperienze, competenze e moralità pubblica. Ci si è a lungo chiesti se dovesse essere cercato fra i politici o fra figure tecniche, istituzionalmente rilevanti. Sono stati molti i nomi proposti dai partiti attraverso autocandidature, esplicite o implicite, o mediante candidature non condivise, tanto da aver portato al fallimento delle trattative, fino all’ottavo scrutinio e a una “decisione d’emergenza”. Come per il gioco dell’oca, si è arrivati laddove si era partiti, dopo aver sfidato la sorte.
E perché non una donna?
In effetti è stato uno dei principali temi di questa settimana. Ma neppure questa volta si è arrivati a una conclusione positiva. Forte è stata la mobilitazione (anche via social media) e sostenuta è stata la promozione di appelli da parte di movimenti di donne, perché la richiesta fosse messa sull’agenda politica. Si tratta di una lacuna durevole che impedisce la realizzazione di una reale democrazia paritaria, formale o sostanziale che sia. Alla fine, i principali nominativi proposti per la carica presidenziale sono stati due: da una parte una donna politica, dall’altra una tecnica, ovvero la presidente del Senato Alberti Casellati (duramente punita nelle votazioni anche dai suoi stessi compagni/e di partito) e Belloni (non votata per via di veti incrociati). A livello mondiale sono ormai molte le donne che, contro ogni stereotipo culturale, sono state elette presidenti in Africa, Asia e America Latina (ben 13). A quasi 80 anni dalla fine della dittatura fascista attendiamo ancora una donna presidente. Questo è un dato di fatto e un vulnus persistente: nessuna Presidente del Consiglio, nessuna Presidente della Repubblica. Il problema è ancora una volta lo sbarramento dei partiti alla leadership femminile e il perdurare di forme di politica not-women-friendy. Finché saranno i segretari di partito a selezionare e determinare le candidature, le donne in politica non potranno emergere. Hanno una vita politica breve e sono maggiori gli ostacoli d’accesso che incontrano. Le donne sono 112 al Senato e 229 alla Camera dei Deputati, ma fra i 58 “grandi elettori” delle Regioni sono state solo 4 le rappresentanti che hanno votato per l’elezione presidenziale. Le azioni positive previste per le liste elettorali non bastano. Oltre che una riforma di sistema, bisogna cambiare le mentalità. La nomina di una Prima ministra e di una Presidente della Repubblica è diventata un’urgenza collettiva. Difficile dire che non ci sono donne “adeguate” a ricoprire queste cariche e responsabilità. Il blocco è nell’accesso alla rappresentanza, perché sbarrato, perché alle donne non viene data la reale opportunità di essere elette in queste cariche e sono spesso strumentalizzate come candidate di bandiera, senza avere reali chances di vincere. Ma ci sono anche forme di auto-inibizione da parte delle donne che precludono molte carriere politiche. La politica non può cambiare se non ci sono anche le donne.
In generale, dal modo in cui si è arrivati all’elezione del nuovo Capo dello Stato, il Governo ne esce rafforzato o indebolito?
Il Governo rimane nella sua composizione così dov’era e com’è. Forse ci sarà qualche cambiamento di forma, ma non certo di sostanza. La roadmap è segnata dalle responsabilità prese con l’Unione Europea, che tira ora un profondo respiro di sollievo. Con ciò Draghi viene dunque confermato e forse anche rafforzato. Preoccupato per gli esiti della crisi istituzionale e del pericolo che si sarebbe corso nel caso non fossero rispettati gli obblighi presi per la riscossione dei 24,1 miliardi di euro della seconda rata del Next Generation EU, Draghi ha molto lavorato alla soluzione/ conferma dell’assetto presidenziale: è riuscito a convincere Mattarella. Al di là delle ambizioni personali, si è riconfermato “nonno al servizio delle istituzioni”… Oltre che rispettare gli impegni presi per conseguire gli obiettivi fissati, la questione più urgente che si presenterà all’interno del Governo sarà quella di evitare una “tregua fasulla”, quando si preparano le armi per dare inizio alla campagna elettorale per le prossime elezioni politiche, previste per la primavera del 2023. Ma intanto le spaccature all’interno dei partiti e tra le coalizioni sono divenute sempre più manifeste. I partiti di opposizione raccoglieranno il malcontento. Importante è dunque programmare e mettere in pratica politiche sociali che evitino rabbia e violenza, così come sfociate nelle recenti manifestazioni e nella nascita di nuovi movimenti di piazza e via internet.
Che tipo di presidenza è lecito attendersi di nuovo da Mattarella?
Continuerà a fare Mattarella per i prossimi sette anni, passando attraverso tre diverse legislature. Dovrà continuare ad essere un garante in una situazione di emergenza pandemica, economica, sociale, culturale, sistemica. Porrà però condizioni e sorveglierà l’attuazione degli accordi presi. Farà quanto è in suo potere per comprendere le ragioni dei cittadini che soffrono e che mostrano una progressiva disaffezione, astensionismo, rabbia verso una politica che non li rappresenta più. Si dovrà adoperare per una politica responsabile della normalità, che sappia essere inclusiva e solidale, riconnettendo i legami sociali andati distrutti. Se poi riuscirà a favorire le condizioni necessarie affinché i cittadini possano ricominciare ad avere fiducia verso le istituzioni e i loro rappresentanti, questa sarà la sua vera sfida, che potremo però misurare solo nel tempo.