Una decisione destinata a cambiare «l’assetto interno delle famiglie». Per Giorgia Serughetti, ricercatrice di Filosofia politica, la recente sentenza della Corte Costituzionale sul cognome da dare ai figli ha una valenza fondamentale. I giudici della Consulta hanno stabilito l’illegittimità costituzionale della norma che non consente ai genitori, anche di comune accordo, di attribuire al figlio il solo cognome della madre, e di quella che impone il solo cognome del padre in mancanza di accordo. In sostanza, la sentenza riconosce il diritto della madre a dare anche il proprio cognome al figlio senza dover necessariamente trovare un accordo con il padre.
Quanto la nuova disciplina sull’attribuzione del cognome potrà contribuire concretamente al raggiungimento di un’uguaglianza di genere?
Intanto, va compreso bene quanto le leggi fin qui vigenti abbiano impedito il raggiungimento della parità. Di fatto, quando un bambino viene messo al mondo, si cancella il cognome della madre. E questo nonostante la riproduzione sia un processo che coinvolge prioritariamente la madre che, quindi, dovrebbe avere tutto il diritto di veder trasmesso il proprio cognome.
Finora era prevista la possibilità del doppio cognome solo se entrambi i genitori fossero stati d’accordo, come stabilito dalla stessa Corte Costituzionale nel 2016.
Il nuovo orientamento dei giudici costituzionali rappresenta un avanzamento nel campo dei diritti civili. Quelli che dicono che la trasmissione del cognome è una questione meramente simbolica ci spingono a chiederci cosa ci sia nei simboli. Nei simboli si rivela un potere. Ecco perché con questa sentenza si modifica in profondità l’assetto interno alle famiglie.
Ora tocca alla politica rendere operativo quanto deciso dalla Corte Costituzionale. I commenti positivi di molti partiti possono trasformarsi rapidamente nel varo di una norma attuativa o ci sarà da attendere a lungo come nel caso di altri diritti civili?
Ci avviamo alla scadenza della legislatura e i diritti civili sono considerati secondari rispetto ad altre questioni. Il problema è che viviamo sempre periodi di urgenze, ma questo non significa dover tralasciare i diritti civili. Occorre una forte volontà parlamentare, soprattutto delle donne che sono in Parlamento. Le proposte di legge ci sono, vanno sciolti dei nodi e ora lo si può fare alla luce dell’indirizzo che è arrivato dai giudici costituzionali. Va rilevato anche che non ci sarebbe stato tutto questo senza una mobilitazione civile.
Si discute molto anche dell’introduzione di un linguaggio più rispettoso del genere. Qual è la sua opinione?
Vale un po’ lo stesso discorso del cognome dei figli. In sé l’idea di un linguaggio attento al genere è vista come meramente simbolica. È vero che dire, ad esempio, architetta piuttosto che architetto non risolve i problemi delle donne che esercitano questa professione, tuttavia riconoscere che ruoli tradizionalmente maschili sono ricoperti anche da donne significa porre una pretesa di trasformazione degli assetti di potere. Bisogna partire dal riconoscere che anche nel linguaggio si gioca un conflitto sociale.