L’idea di una "fine della storia" è un ossimoro che almeno da Francis Fukuyama in avanti ciclicamente riappare come un’araba fenice. Il corso successivo degli eventi si incarica prima o poi di smentirla. La stagione delle primavere arabe è cominciata alla fine del 2010 e ha avuto una sua parabola di ascesa e declino, diversa in ogni Paese. Quando si pensava che quella stagione fosse tramontata si è aperto nel 2019 un nuovo capitolo in un’area dove inizialmente il movimento di protesta aveva attecchito solo parzialmente: quest’area è l’Algeria, che ha alle spalle una sua specifica storia negli anni recenti. In questa seconda puntata, dopo quella dedicata alla Tunisia, continuiamo la nostra conversazione con Caterina Roggero, docente presso il Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione, cercando di capire quali sono gli elementi comuni e quali sono invece le differenze tra quanto è successo nei due Paesi.
Che caratteristiche ha avuto la “primavera araba” in Algeria?
Nel contesto algerino non è stato un singolo episodio come in Tunisia a scatenare la protesta, si è trattato più della crescita di un malcontento generale e di manifestazioni che anche in questo caso si sono coagulate attorno al tema della “dignità calpestata”. Il presidente Bouteflika rappresentava in modo emblematico l’idea di un potere intenzionato a sopravvivere a sé stesso. Nel 2019 era al governo già da vent’anni, nonostante fosse da tempo gravemente malato, afono e costretto su una sedia a rotelle. A febbraio di quell’anno ha annunciato la sua intenzione di candidarsi per un quinto mandato, di fatto senza nemmeno poter partecipare alla campagna elettorale. A partire da questo annuncio milioni di persone sono scese in strada nelle principali città del Paese dando vita ad un moto di protesta partecipato da tutti gli strati sociali, pacifico, che prenderà il nome di Hirak, che in Arabo significa appunto “movimento”, e che è andato avanti per mesi scandito dal ritmo settimanale del venerdì.
Nel 2011 questo non era avvenuto perché probabilmente in Algeria era ancora fresca la memoria dal decennio terribile degli anni Novanta, che non per caso viene chiamato “decennio nero”. Questo periodo è stato caratterizzato da una sanguinosa guerra civile che ha avuto come protagonisti l’esercito e le formazioni islamiste violente; è stato un periodo tragico che è succeduto proprio a quella che in un certo senso era stata una “primavera araba” ante litteram. A partire dal 1988 infatti si era aperta una fase di transizione che aveva portato alle prime elezioni multipartitiche, poi vinte nel 1991 da una formazione islamista, il Fronte islamico di salvezza. Per questo nel 2011 gli algerini potevano dire: “noi la primavera araba l’abbiamo già vissuta”, e i militari mettevano in guardia dal ripiombare in una situazione caotica e violenta come quella già vissuta.
Nel 2019 però si è verificata una scollatura all’interno del sistema di potere perché soprattutto i settori legati all’esercito hanno capito che l’assetto politico non era più difendibile come tale. Bouteflika si è dimesso e l’Hirak ha avuto i suoi successi, ma un vero ricambio ai vertici non c’è stato. E’ stata cioè avviata una transizione dall’interno che ha portato all’elezione di un esponente gradito all’esercito stesso: Abdelmadjid Tebboune, che è ancora oggi presidente dell’Algeria.
Cosa è cambiato con Tebboune?
Tebboune da parte sua ha portato avanti un certo rinnovamento della classe dirigente, ma questo ricambio al vertice è stato probabilmente più legato a sue esigenze di consolidamento che non ad un vero cambio di orientamento o di obiettivi politici. Egli è infatti un uomo legato al passato regime, non si può considerare un homo novus come Saïed in Tunisia, però anche lui, come Saïed, ha cercato di appropriarsi della narrativa del cambiamento: parla infatti della costruzione di una nuova Algeria e del “benedetto Hirak” come origine del suo nuovo potere.
La rendita petrolifera tuttavia è ancora a beneficio di pochi, l’Algeria non ha un sistema di welfare sviluppato come quello che c’era per esempio nella Libia di Gheddafi. C’è un sistema di sussidi per esempio per l’acquisto di generi alimentari primari, per la benzina, ma al di fuori di questo l’assetto del potere è ancora un sistema chiuso. Nello scorso settembre ci sono state nuove elezioni, perlopiù regolari, ma sempre con un tasso di partecipazione molto basso, attorno al 30%: quindi la disaffezione verso la vita politica istituzionale è presente anche qui.
Come mai secondo lei si assiste ad un ritorno ciclico di esperienze politiche che hanno quasi sempre un fondo più o meno marcato di autoritarismo?
L’eredità coloniale ha avuto un peso determinante in questo, nella fase postcoloniale queste società hanno avuto uno sviluppo distorto. La stessa presenza dei militari in politica e l’influenza che esercitano (in Algeria ed Egitto, ma non in Tunisia) è legata all’eredità delle lotte di indipendenza e al ruolo che essi hanno avuto nella costruzione dello Stato, in sostituzione di quello che normalmente nel modello europeo ha la classe media o le borghesie nazionali. I forti nazionalismi poi hanno impedito fin qui quell’unione regionale che pure esiste sulla carta, e si chiama Unione del Maghreb arabo, ma di fatto non si è mai realizzata. Sarebbe potuta diventare una sorta di contraltare all’Unione Europea sulla sponda Sud del Mediterraneo, un volano per l’economia di questi Paesi, con l’abolizione delle dogane, una moneta e una banca centrale unica, dalla Libia alla Mauritania. Purtroppo nei fatti non ha mai funzionato; una delle cause è la forte inimicizia tra Algeria e Marocco, che si dividono su varie questioni, ma in modo particolare sul tema dell’indipendenza del Sahara Occidentale.
Vorrei però sottolineare che la restaurazione fin qui è sempre stata condotta ancora dalla vecchia generazione, da esponenti politici che hanno settant’anni e più, ad un certo punto di necessità i tantissimi giovani che costituiscono la maggioranza di queste società verranno alla ribalta.
Quali modelli hanno in mente queste giovani generazioni? E che peso ha la religione rispetto al passato?
Sicuramente sono generazioni molto più aperte al mondo esterno rispetto al passato, ma al tempo stesso una cosa che ha scosso queste società è stata la guerra a Gaza e il double standard che è stato adottato dall’Occidente rispetto all’invasione dell’Ucraina e alla resistenza degli ucraini: la fiducia nel sistema di valori occidentali ne è risultata compromessa. Questa questione è davvero molto sentita, è una questione viscerale e identitaria, anche perché dietro c’è tutto il tema dell'indipendenza nazionale ottenuta da questi Paesi al prezzo di dure lotte di liberazione (e il caso palestinese viene letto così nell’ottica della decolonizzazione). I governi dell’area hanno però tenuto sotto controllo anche le manifestazioni che erano semplicemente a favore del popolo palestinese, su questo tema il più delle volte il sentimento popolare non ha coinciso con la posizione che essi hanno in politica estera.
In conclusione direi che è un momento in cui bisogna fare molta attenzione a comunicare bene la nostra democrazia, a saperla se necessario anche sganciare dalle scelte portate avanti dai governi occidentali. Dal fermento sociale e culturale in atto nei paesi arabi dalle Primavere in poi potrà nascere qualcosa di diverso rispetto al passato, anche rispetto ai nostri standard “occidentali”, quali forme assumerà è ancora presto per dirlo.