Il destino delle primavere arabe: il caso della Tunisia - Bnews Il destino delle primavere arabe: il caso della Tunisia

Il destino delle primavere arabe: il caso della Tunisia

Il destino delle primavere arabe: il caso della Tunisia
Tunisia

Dal gesto disperato di Mohamed Bouazizi, che nel dicembre 2010 - stanco di lottare contro la povertà, gli abusi della polizia corrotta, l’assenza di prospettive per sé e la propria famiglia - scelse di darsi fuoco di fronte al palazzo del governatore della sua provincia, è sorto un movimento di massa che ha destato per un certo periodo speranze e aspettative in tutto il mondo. Dopo quel giorno la protesta si estese rapidamente prima all’intera Tunisia, dove nel giro di un mese provocò la fuga del presidente Ben Ali e poi, come le tessere di un domino, a buona parte dei Paesi del Nordafrica e del Medio Oriente. Le ultime ricadute si sono riscontrate poche settimane fa in Siria, a quindici anni di distanza. Abbiamo la fortuna di parlarne con un’osservatrice privilegiata, esperta di storia e cultura del mondo arabo, la docente Caterina Roggero (Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione).

Sono passati ormai un po’ di anni e forse per i più giovani varrebbe la pena ripartire dall’inizio: che cosa sono state le primavere arabe?

Sono state delle manifestazioni partecipatissime a livello popolare, di carattere a volte anche insurrezionale, ma la maggior parte delle volte pacifico, manifestazioni in cui era assente - o se era presente lo era ad un livello molto basso - l’inquadramento gestito da forze organizzate. In Tunisia solo in un secondo tempo abbiamo assistito all’ingresso in scena di partiti clandestini, in esilio, o di organizzazioni sindacali. Inizialmente il movimento si è caratterizzato per una genuina e diffusa spontaneità.

Il movente principale è stato certamente una situazione economica difficile, se non difficilissima; a questa condizione si è affiancata però fin da subito una richiesta di dignità e di libertà che ha preteso riconoscimento. Queste manifestazioni si sono trovate di fronte regimi autoritari, che in quel momento hanno rivelato al mondo il loro vero volto, regimi che mantenevano il potere politico ininterrottamente da decenni senza nemmeno il ricorso ad elezioni o - come nel caso tunisino ed egiziano - a seguito di elezioni farsa.

Pur trattandosi di manifestazioni fondamentalmente pacifiche, hanno avuto un seguito di massa così ampio e continuato che hanno costretto i governi ad abdicare. Analisti e studiosi si sono molto occupati di questi movimenti, dibattendo se definirli rivolte o rivoluzioni. Uno studioso in particolare coniò una definizione in cui mi ritrovo: “rivoluzioni senza rivoluzionari”, cioè movimenti che fondamentalmente non avevano una guida e in larga parte nemmeno una forte ideologia politica che proponesse un totale cambiamento dello Stato e delle sue istituzioni.

Un fattore importante sono stati i social network, che hanno funzionato da catalizzatore del processo. Teniamo presente che queste società sono molto più giovani della nostra, quindi si è vista la partecipazione diretta di moltissimi ragazzi tramite il passaparola dei social; in questo senso per la prima volta si è parlato di un uso politico dei social, si è scoperta la loro potenzialità come strumento di liberazione nei luoghi in cui la democrazia non c’è. Le reti sociali non erano però solo quelle del web, ma erano anche quelle personali, e da un certo momento in avanti anche reti di realtà organizzate, come il sindacato UGTT che, dopo una fase iniziale di attendismo filogovernativo, ha preso le distanze dal regime e si è schierato con i manifestanti, come già era successo alla fine degli anni Settanta, durante i fatti di quello che viene chiamato “giovedì nero”.

Per alcuni anni la Tunisia è stata considerata l’unico caso di successo delle primavere arabe. Che valutazione possiamo dare oggi, tenendo conto che ogni bilancio è provvisorio?

Dal 2011 si è avviato un processo di transizione, che ha attraversato diverse fasi e ha avuto risvolti contraddittori, un percorso che ha visto anche la partecipazione di attori stranieri: associazioni, ONG… la stessa Unione Europea ha investito molto per favorire la transizione. Questo processo è durato perlomeno un decennio, fino al 2021. Dal luglio di quell’anno è cominciata una fase di declino in termini democratici, anche se non c’è un ritorno all’autoritarismo dai contorni netti come in altri paesi. L’attuale presidente, Kais Saïed, ha dapprima sospeso il parlamento il 25 luglio 2021 (una data da allora considerata storica), poi ha cambiato la costituzione, dandole un tratto fortemente presidenzialista. Ha convocato quindi nuove elezioni presidenziali, che si sono svolte in modo corretto, in cui il tasso di partecipazione popolare, pur risalito rispetto al 11% delle legislative, si è attestato intorno al 28%. Diciamo che quello che rende un po’ problematico accettare questo cambiamento di corso operato da Saïed, formalmente legittimo, sono gli arresti di giornalisti ed esponenti dell’opposizione.

Oggi come oggi oltre ad una certa sfiducia c’è molta paura, è difficile trovare analisti che abbiano voglia di raccontare il Paese dall’interno; accanto a questa c’è una retorica che fa leva sulla stanchezza nei confronti dei non-risultati delle rivoluzioni e dei non-risultati della democrazia: il processo di transizione non ha portato ad un miglioramento delle condizioni di vita. La retorica di Saïed trova in questo le sue basi: lui è l’uomo nuovo, slegato dai partiti perché ancora oggi non ha un suo partito, promette di risolvere una situazione avversa (in particolare a livello economico) e si appropria di questa narrativa della “rivoluzione che continua” - più a parole che nella pratica perché di grandi riforme per il momento non ne ha fatte - che continua però non secondo i criteri dettati dall’Occidente, che non hanno portato frutti. Sembra voler declinare la sua strategia in un’ottica che potremmo definire “sovranista”: di recente per esempio ha dichiarato di rinunciare ad un prestito del FMI, che imponeva delle condizionalità che avrebbero avuto un prezzo alto in termini di consenso, preferendo cercare altri interlocutori rispetto a quelli occidentali, in grado di sostenere le finanze disastrate della Tunisia, vicine al default: per esempio ultimamente c’è stata una certa sintonia con l’Algeria, ma la situazione può evolvere ulteriormente.

Cosa pensa dell’opinione corrente secondo cui alla primavera araba è semplicemente seguito un ritorno all’inverno della conservazione?

No, quello che si vede dal mio punto di vista è che sicuramente sono stati gettati dei semi i cui frutti devono ancora crescere e svilupparsi, perché comunque c’è stato un risveglio culturale e sociale - ne parliamo molto in questo libro che abbiamo appena pubblicato - a livello di letteratura, di cinema, di teatro, di arti visive e più in generale nella società civile c’è stato un fermento straordinario che tutti gli esperti hanno registrato. In Italia, per esempio, ci sono state molte più pubblicazioni di autori arabi, ma anche i cambiamenti e i movimenti sociali non sono finiti tutti nel nulla, hanno continuato, benché con fatica, a costituirsi, a organizzarsi, a dibattere. Quindi comunque qualcosa rimane, bisognerà vedere che strade prenderà.