Si celebra oggi la Giornata mondiale contro l’AIDS, l’iniziativa che intende tenere alta l’attenzione sull’infezione da virus HIV che si stima abbia ucciso nel mondo 25 milioni di persone. Le modalità di trasmissione – sangue, sperma, secrezioni vaginali e latte materno – ne hanno fatto una patologia che ha riguardato principalmente alcune categorie di persone, ritenute maggiormente a rischio. La letteratura medica se ne occupò per la prima volta nel 1981, da allora a oggi tanti sono stati i progressi sia nel contenimento della diffusione che nella definizione delle terapie. Molto, però, resta ancora da fare. Ne abbiamo parlato con Paolo Bonfanti, infettivologo di Milano-Bicocca e direttore del reparto di Malattie infettive del San Gerardo di Monza.
Professore, che evoluzione ha avuto il contagio da HIV dagli anni Ottanta del secolo scorso a oggi?
L’epidemia ha riguardato fin dall’inizio i Paesi sviluppati, ma ancor di più quelli poveri. Negli anni Novanta in Africa centrale e meridionale colpiva il 15-20 per cento della popolazione sessualmente attiva, con una mortalità elevatissima. Questo incideva sulla vita media che si attestava, ad esempio in Uganda, intorno ai quarant’anni. Oggi, grazie alla disponibilità di farmaci anche nei Paesi in via di sviluppo, la vita media è salita a 60 anni anche in realtà come l’Uganda che è stata tra le più colpite.
Com’è cambiata la tipologia dei pazienti?
È cambiata da contesto a contesto. In Italia l’HIV colpiva soprattutto giovani che facevano uso di stupefacenti. Da tempo assistiamo ad un calo progressivo generalizzato, ma occorre tenere ancora alta la guardia: oggi la maggioranza dei pazienti ha contratto il virus per via sessuale. Si tratta soprattutto di giovani tra i 20 e i 35 anni.
È cambiata la consapevolezza del rischio: le massicce campagne di sensibilizzazione degli anni Novanta sono scomparse e i giovanissimi neppure hanno sentito parlare di AIDS…
Purtroppo quest’epidemia è stata considerata troppo precocemente superata. Se ne parla sempre meno e le informazioni non raggiungono i giovani che sono diventati la categoria maggiormente a rischio. Gli anni della pandemia, poi, non ci hanno aiutato. Nel biennio 2020-2021 è stato difficile accedere agli esami diagnostici e quindi non è stato possibile fare una diagnosi precoce. Nel reparto di Malattie infettive abbiamo soprattutto casi di pazienti con AIDS che rappresenta già uno stadio avanzato dell’infezione.
Quali progressi sono stati fatti per quello che riguarda le cure e con quali ricadute sulle aspettative di vita dei pazienti?
Oggi abbiamo terapie più semplici da praticare, con minori effetti collaterali e meno impattanti sulla qualità di vita dei pazienti. Questo garantisce, nella stragrande maggioranza dei casi, delle aspettative di vita che sono pressoché sovrapponibili con quelle della popolazione non colpita. Inoltre, sono in arrivo nuove terapie “long-acting” con iniezioni da fare periodicamente – sei all’anno – che sostituiscono le pillole da assumere quotidianamente. L’altro aspetto positivo è che, grazie alle cure messe a punto nel tempo, i pazienti non trasmettono la malattia. Questo ha contribuito a contenere la diffusione dell’epidemia.
Un tempo era diffusa anche la trasmissione da madre a figlio. Oggi?
Tutte le madri e i bambini che portano in grembo sono controllati e abbiamo farmaci che possono essere presi anche in gravidanza. Questo tipo di trasmissione è ormai un evento rarissimo.