15 agosto 1969: la piccola cittadina statunitense di Bethel viene letteralmente invasa da oltre 500mila spettatori per il festival di Woodstock, ricordato come il più grande evento di musica rock nel segno della pace. Santana, Janis Joplin, Jimi Hendrix e Joe Cocker sono solo alcuni dei grandi nomi della musica, saliti su quel palco. Esattamente 50 anni dopo, qual è la sua eredità culturale? Ne abbiamo parlato con il professor Simone Ghezzi, docente di antropologia dell'Università di Milano-Bicocca.
Professor Ghezzi, come descriverebbe Woodstock?
È un evento che è rimasto nella memoria della cultura giovanile degli anni ’60. È un punto di riferimento quando si parla di cambiamenti sociali e del ruolo della musica. Si tratta di una memoria che si è tramandata, rielaborata nelle generazioni successive, trasformandosi sempre più in un’icona e perdendo gli elementi contestualizzanti.
Qual è l’eredità culturale lasciata da Woodstock?
Bisogna innanzitutto distinguere gli aspetti valoriali dagli aspetti materiali. Sopravvive l’idea stereotipata di Woodstock come il culmine del movimento hippy, portatore di valori, tra i quali la non violenza e la lotta alla politica colonialista americana. Dall’altro lato fu valorizzata la musica di quegli anni che cercava di rappresentarsi all’interno di questo movimento, diventando un business per gli stessi gruppi che parteciparono al concerto. Non bisogna dimenticare che Woodstock era nato come un evento con interessi economici, poi cresciuto a dismisura: gli organizzatori si aspettavano circa diecimila spettatori e di persone ne sono arrivate quasi mezzo milione.
In questi 50 anni, nel resto del mondo, sono esistite o esistono manifestazioni simili?
Forse l’unico grande evento paragonabile a quello, per certi versi superiore (per gli obiettivi umanitari che lo avevano ispirato e per l’impianto organizzativo) fu il Live Aid del 1985 e in misura minore anche il No Nukes del 1982 a New York, contro il nucleare. Ma i paragoni finiscono qui. Di Woodstock ci si ricorda non solo della grande musica, ma anche e soprattutto del pubblico partecipante che rappresentava un movimento culturale. Il pubblico del Live Aid era una grande folla senza un movimento.
Anche noi qui in Italia abbiamo avuto un piccolo Woodstock: il sesto Re Nudo Pop Festival del 1976, organizzato presso il Parco Lambro di Milano. Da concerto ridotto nelle sue dimensioni, è cresciuto in maniera inaspettata proprio perché dietro c’era un movimento culturale che ha trovato in quell’evento un momento importante per mettere in scena la propria visione del mondo.
Oggi, secondo lei, potrebbe esistere una sorta di “Woodstock 2.0”?
Sono piuttosto scettico: ormai gli eventi musicali sono prevalentemente legati ad un business. Potrebbe esserci un “Woodstock 2.0” organizzato sui social, in maniera spontanea. Sarebbe una nuova forma di condivisione, di momenti ludici di comunità attraverso i nuovi mezzi di comunicazione. Però non ci vedo quel modello valoriale perché la società è cambiata tantissimo.
Quali sono le principali differenze tra il contesto sociale in cui Woodstock è nato e l’attuale scenario?
I giovani degli anni ’60 sfidavano lo status quo come la famiglia d’origine, per il desiderio di rottura nei confronti delle vecchie generazioni. I loro genitori avevano vissuto in un contesto completamente diverso, quello della società americana, con la grande crisi e la guerra prima e il consumismo degli anni ’50 poi. Al giorno d’oggi ci sono temi che difficilmente fanno molta presa sui giovani. Si potrebbe pensare all’ambiente e alla sostenibilità: tuttavia non vedo né da parte del business musicale né da parte dei fruitori di musica una liaison per realizzare questi avvenimenti. La musica militante resta minoritaria, non ha la capacità di creare momenti di forte condivisione. I grandi eventi musicali attuali sono avulsi dal contesto politico e da intenti progettuali di cambiamento dal basso.