Il rapporto tra maestro e allieva può rappresentare un passaggio decisivo nella formazione intellettuale e personale, soprattutto quando si sviluppa nel tempo come
occasione di confronto e crescita. È quanto accaduto tra Jürgen Habermas, uno dei principali esponenti della Scuola di Francoforte, e Marina Calloni, oggi professoressa ordinaria di Filosofia Politica e Sociale presso il Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale della nostra Università.
L’interesse per il pensiero di Habermas è nato durante gli anni universitari di Calloni, tale da portarla a proseguire gli studi a Francoforte e a continuare poi a collaborare
con il filosofo nel corso degli anni. Un legame professionale e personale che ha avuto sviluppi importanti, come dimostra anche il recente incarico affidatole da Habermas
di ritirare, a suo nome, il Premio Antonio Feltrinelli per la filosofia assegnatogli dall’Accademia dei Lincei.
In questa intervista, Marina Calloni racconta il percorso che l’ha portata a confrontarsi con la Teoria Critica della Società e a mantenere vivo, nel tempo, un dialogo con uno dei filosofi più influenti del Novecento, ancora in attività.

Quando ha incontrato per la prima volta il pensiero di Habermas?
Il mio primo incontro con il pensiero di Habermas risale ai primi anni dell’università, alla fine degli anni Settanta, quando frequentavo la Facoltà di Filosofia all’Università degli Studi di Milano. Era un periodo segnato da forti tensioni sociali e politiche: il terrorismo, la crisi economica, un clima universitario agitato. In quel contesto, si discuteva molto della crisi del marxismo e si cercavano nuove strade per ripensarlo in chiave critica e attuale.
In che modo si è avvicinata concretamente a Habermas e alla Scuola di Francoforte?
Mi avvicinai grazie ai corsi del professor Emilio Agazzi, che insegnava Filosofia della storia. In quel periodo stava traducendo testi dell’Austromarxismo e della Scuola di Francoforte. Si interessò in particolare al libro Per la ricostruzione del materialismo storico di Habermas. Fu tra i primi in Italia a occuparsene, coinvolgendo anche noi studenti nella lettura di questi testi. Da lì iniziai ad approfondire i temi della Teoria critica della società, con particolare attenzione al concetto di sfera pubblica.
Quale ruolo ha avuto lo studio della sfera pubblica nelle sue ricerche?
È stato centrale sin dall’inizio. Mi appassionai al libro Storia e critica dell’opinione pubblica, pubblicato in Germania nel 1962 e tradotto in Italia nel 1971. Volevo capire come si forma il pensiero critico attraverso un vero dibattito pubblico. Iniziai così a confrontare il pensiero di Habermas con le esperienze dei movimenti sociali di allora e con le riflessioni di autori come Oscar Negt e Alexander Kluge sulla sfera pubblica proletaria.
Quando ha conosciuto personalmente Jürgen Habermas?
Nel 1982, mentre preparavo la mia tesi di laurea – una ricerca molto corposa, di oltre 600 pagine, sul concetto di sfera pubblica e i meccanismi di manipolazione. Mi trovavo in Germania per fare ricerche in biblioteca e studiare il tedesco. Ero a Francoforte con Elena Agazzi, figlia del mio professore. Al ritorno andammo a trovare Habermas a Starnberg, dove viveva con la moglie Ute. Fu un incontro importante, che segnò l’inizio di un rapporto duraturo.
Come si è sviluppato questo legame negli anni successivi?
Dopo la laurea, ottenni una borsa di studio del DAAD che mi permise di tornare in Germania. Frequentai per tre anni, dal 1985 al 1989, l’università di Francoforte e il vivace Kolloquium del lunedì sera tenuto da Habermas. Rimasi in contatto con lui anche negli anni successivi, anche in relazione alla traduzione di alcune sue opere, tra cui il volume Il pensiero post-metafisico, fino alla recente cura del libretto Il mutamento della sfera pubblica nell’età digitale.
Quali aspetti del pensiero habermasiano ha approfondito maggiormente?
Mi sono concentrata in particolare sulla teoria della democrazia deliberativa, sulla comunicazione pubblica, sui movimenti radicali e su una visione normativa della critica sociale. Ho condotto anche ricerche d’archivio su altri autori della Scuola di Francoforte, da Horkheimer e Adorno a Marcuse, e ho dialogato con filosofi e filosofe come Benhabib, Fraser e Honneth, conosciuti fin dal periodo francofortese. Negli anni ho ampliato lo sguardo, includendo teorie femministe, con un focus sulla critica della violenza – in particolare quella domestica – come fondamentale questione politica e filosofica. Questo punto di vista mi ha permesso di mettere in discussione anche alcuni elementi del pensiero di Habermas, come di molti altri filosofi. Oggi, come Presidente della Società di Teoria Critica, lavorando con le nuove generazioni, cerco di mantenere vivo un pensiero critico che non si adagi, ma continui ad adoperarsi per la giustizia sociale e la difesa dei diritti umani.
Habermas viene spesso criticato come pensatore “troppo idealista”. Lei cosa ne pensa?
È un fraintendimento. Habermas non è un idealista. La sua forza sta nella capacità di partire dai dati di realtà, anche i più drammatici – come l’esperienza del nazismo vissuta da ragazzo – per proporre una visione normativa. La sua teoria dell’agire comunicativo è controfattuale, ma non utopica: si fonda sull’analisi concreta delle condizioni della comunicazione e dei processi democratici, per individuare le patologie e rafforzare le libertà collettive.
In che modo Habermas ha interpretato i recenti cambiamenti della sfera pubblica?
Ha analizzato con lucidità l’impatto dei social media. Se da un lato ampliano le possibilità di espressione, dall’altro rischiano di compromettere la formazione della volontà politica attraverso manipolazione, polarizzazione e controllo da parte delle grandi piattaforme digitali e dei poteri politici. È impressionante come, a 96 anni, Habermas continui a intervenire con lucidità su temi cruciali come l’Europa, l’intelligenza artificiale e la democrazia deliberativa.
Recentemente ha ritirato un premio a suo nome. Di cosa si è trattato?
Habermas ha ricevuto il Premio Antonio Feltrinelli per la filosofia, il più prestigioso riconoscimento dell’Accademia dei Lincei a Roma. Non potendo partecipare, mi ha chiesto di ritirarlo a suo nome. Il 13 giugno ho così preso parte alla cerimonia, alla presenza del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. È stato un momento significativo, non tanto per ragioni personali, bensì collettive: un segno di quanto il pensiero debba ancora essere esercizio di responsabilità pubblica.
Quali riflessioni ha tratto da quella giornata?
È stata l’occasione per ribadire che la filosofia non può restare confinata all’accademia, ma deve tornare a interrogare il presente. Come ha sempre fatto Habermas, serve un pensiero critico, al servizio della democrazia, della giustizia e della pace. Anche il regista Wim Wenders, premiato dall’Accademia dei Lincei per le arti, ha pronunciato un discorso intenso e condivisibile, parlando dell’Europa non come retorica, ma come scelta etica e politica. In un tempo di guerra, è più che mai necessario far sentire la voce della società civile.
Purtroppo, proprio in quei giorni, è avvenuto un grave lutto nella famiglia Habermas.
Sì, pochi giorni dopo la cerimonia ho appreso con dolore della scomparsa di Ute Wesselhoeft, compagna di vita di Habermas per oltre settant’anni. Erano legati da un rapporto profondo, fatto di dialogo e condivisione intellettuale. Aveva studiato storia ed era stata insegnante: una figura di grande spessore, che ha lasciato un segno anche nel lavoro del marito.
Come ricorda personalmente la signora Ute?
La incontrai per la prima volta nel 1982, a Starnberg. Mi colpì subito per la sua discrezione e gentilezza. Era una donna colta, riservata e accogliente, soprattutto verso noi giovani studentesse straniere: eravamo in pochissime a frequentare allora i corsi di Habermas. È a lei che il marito ha dedicato Teoria dell’agire comunicativo, e ne ricorda il ruolo fondamentale con parole commoventi anche nella prefazione della sua ultima ponderosa opera, Una storia della filosofia. Non era solo “la moglie del filosofo”, ma una donna che ha vissuto con luce propria, con intelligenza, sensibilità e forza interiore.