Ha senso “ritoccare” le fiabe? - Bnews Ha senso “ritoccare” le fiabe?

«Le fiabe, dunque, non sono responsabili di produrre la paura nei bambini, una qualsiasi delle forme della paura; le fiabe non danno al bambino l’idea di male o di brutto: questa è già presente nel bambino, perché è già presente nel mondo. Le favole non fanno nascere nel bambino la prima immagine di Babau. Ciò che le fiabe fanno nascere nel bambino è la prima chiara immagine della possibilità di sconfiggere il Babau. Il bambino conosce intimamente il drago da quando ha un'immaginazione. Ciò che la fiaba gli fornisce è un San Giorgio che uccida il drago».
(
Gilbert Keith Chesterton, Tremendous Trifle, cap. XVII, The Red Angel)


Brutto, cattivo, grasso, pazzo. Questi e altri termini non appaiono più nelle nuove edizioni dei libri dello scrittore inglese Roald Dahl, uno dei più celebri autori del Novecento di libri per l’infanzia, come La fabbrica di cioccolato, Gli sporcelli, Le streghe e Matilde.

La britannica Puffin Books (gruppo Penguin Random House, la più grande casa editrice del mondo) e la Roald Dahl Story Company, titolare dei diritti sulle opere di Dahl, negli ultimi anni hanno infatti deciso di rivedere i testi dell’autore, caratterizzati da uno stile scanzonato e irriverente, per eliminare espressioni potenzialmente lesive della “sensibilità contemporanea” e sostituirle con altre più “neutre”. Nei colophon delle nuove edizioni, una nota precisa che «Le parole sono importanti. Le magnifiche parole di Roald Dahl possono trasportare in mondi diversi e far conoscere personaggi meravigliosi. Questo libro è stato scritto tanti anni fa e quindi ne rivediamo regolarmente il linguaggio per assicurarci che possa essere apprezzato da tutte le persone anche oggi».

La giustificazione è condivisibile? In Inghilterra, la questione è balzata all’attualità quando il quotidiano Telegraph ha pubblicato un lungo articolo (The Rewriting of Roald Dahl) che analizzava nel dettaglio dieci libri di Dahl, confrontando le edizioni più recenti con quelle precedenti e rilevando centinaia fra modifiche e cancellazioni di frasi “inopportune”.
Ne è scaturito un vivace dibattito sui media e i social, anche in Italia: in molti hanno gridato alla censura e stigmatizzato il caso Dahl come un esempio di cancel culture.

Le polemiche non si sono placate neppure dopo la decisione della Puffin Books di pubblicare in futuro i libri di Dahl sia nelle versioni aggiornate sia nella versione originale. In una prospettiva pedagogica, approfondiamo il tema con Francesca Antonacci, professoressa di Pedagogia generale e sociale del Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione “Riccardo Massa”.

Come giudica operazioni come quella attuata sui romanzi di Dahl?

Sono un esempio della tendenza alla edulcorazione e semplificazione della letteratura per l’infanzia, molto diffusa negli ultimi anni: viene riveduto e corretto ciò che per le generazioni precedenti ha costituito il tesoro nascosto dell’immaginazione, lo scrigno magico dei sogni di ogni bambino. Uno scrigno di cui fanno parte anche sensazioni ed esperienze forti e significative, che vengono così codificate e tradotte di generazione in generazione grazie alla dimensione narrativa. Tuttavia l’attuale progressiva riduzione della portata espressiva del linguaggio produce una banalizzazione della realtà, una sua versione rarefatta e ripulita.


Quali sono le conseguenze?

Con l’idea puritana di non esporre il bambino ad alcuna forma di negatività si vorrebbe preservarlo da ogni aspetto di male presente nell’esperienza, per consentirgli una vita più serena, gioiosa e serena. Ma è una pia illusione, che ha spesso un effetto contrario, come contraccolpo. I bambini vivono nel mondo e il male fa già parte della vita: il bambino lo conosce, dentro e fuori di sé, spesso con maggiore chiarezza dell'adulto. Ciò che si sottrae al bambino in questo modo è il fare esperienza del male, e quindi anche l’esperienza per fronteggiarlo.


La presenza nei racconti per l’infanzia di situazioni “paurose” e di un linguaggio che connota negativamente alcuni personaggi (per esempio, definendoli brutti o grassi) rende opportuna nella lettura l’intermediazione di un adulto, che spieghi e contestualizzi?

Decisamente no. La fiaba ha una sua potenza simbolica e viene quindi assorbita simbolicamente dal bambino che l’ascolta o la legge, senza bisogno di mediazione o contestualizzazione esterna. Ed è normale e giusto che alcuni passaggi del racconto possano anche spaventarlo, perché è la storia medesima a indicare al bambino gli strumenti per superare la paura: la struttura tipica delle fiabe, infatti, vede uno o più protagonisti piccoli e deboli che affrontano e superano esperienze e personaggi negativi.
E Roald Dahl è un autore straordinario proprio per la sua maestria nel mettere a nudo in forma simbolizzata anche le paure e le negatività, indicando ai piccoli lettori gli strumenti per superarle e per trovare una via di uscita.


Ma senza una mediazione dell’adulto non c’è il rischio che i bambini siano poi incentivati, per imitazione, a utilizzare un linguaggio scorretto e offensivo?

Nei racconti per l’infanzia a essere violenti e a utilizzare un linguaggio offensivo sono i “cattivi”, o i “bulli”. Il bambino, quindi, percepisce la loro negatività e non è portato a identificarsi ed emularli, neppure nel linguaggio. Un esempio chiaro viene proprio da un romanzo di Roald Dahl, Gli Sporcelli, dove i protagonisti sono una coppia di persone cattive, sporche e brutte, che sono diventate tali perché malvagie e sempre intente a farsi scherzi orribili. Con le parole dell’autore, «Se una persona ha brutti pensieri, dopo un po’ glieli leggi in faccia. E quando i brutti pensieri li ha ogni giorno, ogni settimana, ogni anno, il suo viso diventa sempre più brutto, finché diviene talmente brutto che non sopporti quasi più di guardarlo. Una persona con pensieri gentili non potrà mai essere brutta. Potrà avere il naso bitorzoluto e la bocca storta e i denti in fuori, ma, se ha pensieri gentili, questi le illumineranno il viso come raggi di sole, e apparirà sempre bella».

Considerazioni analoghe valgono anche per i film di animazione?

Sì. Un ottimo esempio di narrazione non edulcorata è Coraline e la porta magica, un film d’animazione in stop-motion del 2009 diretto da Henry Selick e prodotto da Laika Entertainment. Il film è basato su Coraline, il racconto di taglio horror-fantasy per ragazzi scritto da Neil Gaiman e illustrato da Dave McKean.