Due soggetti diversi e un rapporto tutto da costruire: si avvia così, sessantacinque anni fa, il sistema incidentale di giustizia costituzionale in Italia.
Alla “relazione” – come la definisce l’autrice – tra la Corte costituzionale e i giudici comuni (civili, penali e amministrativi), che del sistema incidentale di controllo delle leggi sono i protagonisti assoluti, la professoressa Elisabetta Lamarque ha dedicato un libro, appena pubblicato per Editoriale Scientifica, che riprende e integra un lavoro precedente, come si comprende fin dal titolo: Corte costituzionale e giudici nell’Italia repubblicana. Nuova stagione, altri episodi. Una relazione non semplice dal momento che non era codificata. Nella quasi totale assenza di previsioni di diritto positivo sul funzionamento del sistema italiano di giustizia costituzionale, infatti, i soggetti direttamente coinvolti hanno dovuto scrivere da soli le regole del sistema, tramite le loro rispettive giurisprudenze. «Possiamo dire che la Corte e i giudici si sono attrezzati per colmare questo vuoto», spiega la professoressa di Diritto costituzionale e Giustizia costituzionale all’Università di Milano-Bicocca.
Il volume di Lamarque non è né un libro teorico, né un lavoro di mera ricostruzione della prassi che vede coinvolti i due organi e le loro decisioni, ma è un racconto vero e proprio, che abbina al rigore dell’analisi scientifica una narrazione che si snoda, quasi come una serie tv, in un prequel e in diverse stagioni, e che offre la possibilità di descrivere i giudici comuni e la Corte costituzionale per quello che sono: corpi vivi, immersi in un contesto storico e sociale sempre in movimento. Un approccio il cui valore è stato sottolineato anche da Sabino Cassese nella recensione del libro che ha fatto per “Il Sole 24 Ore”. Così facendo, inoltre, Lamarque riesce ad appassionare anche i non addetti ai lavori alla trama che ne viene fuori.
Professoressa, partiamo dall’inizio. Perché ha definito la prima fase della sua storia il “periodo delle prove d’orchestra”?
«L’attività della Corte costituzionale inizia con l’udienza pubblica del 23 aprile 1956. I giudici costituzionali e i giudici comuni cercano fin da allora di accordare gli strumenti a loro disposizione, e per circa quaranta anni vanno avanti così, per tentativi successivi, alla ricerca di regole empiriche condivise per far funzionare il sistema di controllo sulla legge. In questo lungo periodo, se mai fosse esistita una parola d’ordine circa l’atteggiamento da tenere nei confronti della magistratura ripetuta all’interno del collegio costituzionale, sarebbe stata la famosa frase che poi nel 2012 Mario Draghi, da presidente della Banca Centrale Europea, avrebbe pronunciato in riferimento alla necessità di preservare l’euro: whatever it takes. Fare cioè tutto il necessario perché le pronunce costituzionali siano bene accolte, e recepite, dalla generalità dei giudici comuni. E mentre all’inizio della storia dei rapporti tra Corte costituzionale e autorità giudiziaria quasi nessun tentativo in tal senso funzionava, nel corso degli anni, a forza di provare e riprovare, via via le cose hanno iniziato a ingranare».
Arriviamo, dunque, alla metà degli anni novanta del secolo scorso. Come muta il quadro?
«I quaranta anni di incessanti prove d’orchestra hanno dato vita a un sistema di controllo di costituzionalità effettivamente funzionante, ma negli anni novanta del secolo scorso le prove devono per forza terminare perché c’è un pubblico molto esigente che non può più aspettare, e reclama un’esibizione magistrale dell’orchestra al gran completo. La società civile, infatti, è sempre più insoddisfatta delle risposte della politica e si rivolge agli organi di garanzia non rappresentativi chiedendo loro di intervenire a tutela dei diritti fondamentali delle persone. Entrambi i protagonisti della nostra storia, dunque, sono caricati di pressanti aspettative da parte dei consociati. Aspettative che rischiano seriamente di non riuscire, da soli, a soddisfare. Come se non bastasse, nei medesimi anni le risposte alla crescente domanda di tutela dei diritti fondamentali tendono sempre più a provenire dall’esterno del nostro ordinamento, e cioè dalle due corti europee di Strasburgo e di Lussemburgo, con il conseguente rischio di una perdita di terreno da parte delle giurisdizioni nazionali.
In una situazione del genere l’unione fa la forza, e quindi il secondo periodo della nostra storia è segnato dalla tendenza dei suoi due protagonisti ad avvicinarsi ancora di più, fino quasi a fondersi in un unico, grande, potere giudiziario.
Ho chiamato questi ultimi venticinque anni il “periodo del tango”. It takes two to tango è infatti una frase di una canzonetta americana degli anni cinquanta che parlava di una relazione amorosa, diventata un modo di dire comunissimo dopo che il presidente Reagan la richiamò in una occasione pubblica per descrivere i suoi rapporti con Brežnev all’epoca della guerra fredda. La metafora è perfetta per la nostra situazione, perché ci dice che bisogna essere sempre in due – la Corte costituzionale e l’autorità giudiziaria – per far funzionare bene quella danza appassionata e a schema libero, privo di coreografie predefinite, che è il sistema incidentale italiano di controllo di costituzionalità; e che è sempre responsabilità di entrambi se la danza non funziona. L’immagine del tango suggerisce inoltre che la conoscenza della tecnica e dello stile e la fedeltà agli schemi già sperimentati non bastano ad assicurare un controllo di costituzionalità efficace e capace di proteggere in modo effettivo i diritti costituzionali dei consociati: sono essenziali anche l’orecchio, il ritmo, l’armonia e la fiducia reciproca, oltre che la disponibilità a cambiare il passo, improvvisando al mutare della musica e delle risposte del partner».
Intanto, in Italia è cambiato anche l’assetto politico istituzionale. Non senza effetti, perché se è vero che la verifica della legittimità costituzionale delle norme è un rapporto a due, c’è anche un convitato di pietra: la politica, sia nelle vesti di colei che decide parte della composizione della Corte costituzionale, sia in quella del legislatore. Perché, alla fine, oggetto del sindacato di costituzionalità sono le leggi volute dalle maggioranze politiche.
«Un sistema di controllo di costituzionalità come il nostro può dirsi che funzioni davvero se nessuna legge viene applicata, in un caso concreto pendente davanti a un giudice comune, in maniera contraria ai diritti delle persone che di quel giudizio sono parti. La Corte costituzionale, però, non può sindacare l’operato del legislatore senza che venga sollevato il dubbio di costituzionalità dal giudice che si trovi a dover applicare quella legge a un caso concreto. È la cosiddetta fase ascendente del giudizio costituzionale, nella quale i giudici comuni sono i “portieri”, come diceva Calamandrei, della Corte costituzionale, e cioè coloro che aprono le porte del suo giudizio e le permettono di svolgere il suo compito. Alla fase ascendente segue quella discendente, e cioè l’accoglienza della decisione della Corte costituzionale da parte dei giudici i quali – ancora una volta – sono i primi interlocutori della Corte. Se qualcosa si inceppa in questo meccanismo, c’è il rischio che le persone possano vedersi applicata una legge non conforme alla nostra Carta fondamentale».
Negli ultimi anni, su casi spinosi che investono le coscienze delle persone, la Corte costituzionale non sempre ha scelto di intervenire direttamente sulla legge, ma ha piuttosto preferito chiamare la politica a una assunzione di responsabilità. È l’avvio di una nuova stagione?
«La Corte costituzionale è spesso chiamata a decidere su temi eticamente sensibili o politicamente scottanti. Negli ultimi anni si sono poste all’attenzione dei giudici questioni delicate, sulle quali il legislatore era inerte o in ritardo rispetto a quanto maturato nella coscienza sociale, e i giudici hanno a loro volta chiesto l’intervento della Corte costituzionale. In alcuni di questi casi, come il fine vita o l’ergastolo ostativo, la Corte costituzionale, anziché individuare subito una disciplina sostitutiva di quella incostituzionale, ha dato tempo al legislatore, scegliendo di entrare in azione solo se il legislatore non avesse rimediato all’incostituzionalità entro il termine stabilito. Alcuni ritengono che questa sia un’ingerenza della giustizia costituzionale, un’assunzione di un compito che non le spetta. In realtà la Corte agisce come supplente soltanto in seconda battuta, se il legislatore omette di riportare l’ordinamento legislativo al superiore quadro costituzionale in un tempo ragionevole. Si deve anche considerare, tra l’altro, che in altri casi, come in quello relativo alla tutela dei bambini nati a seguito di una maternità surrogata praticata all’estero, per ora la Corte si è tirata indietro, chiedendo tuttavia perentoriamente al legislatore di intervenire».
Il libro Corte costituzionale e giudici nell’Italia repubblicana. Nuova stagione, altri episodi sarà presentato a Bookcity nell’ambito dell’iniziativa Bicocca per Bookcity.
L’incontro di presentazione, dal titolo I giudici a Corte, si terrà al Palazzo di Giustizia di Milano il prossimo 19 novembre dalle 11.00 alle 13.00 (Sala Conferenze Eligio Gualdoni, Via Freguglia n. 1).
Alla discussione, coordinata da Donatella Stasio (giornalista, responsabile della comunicazione della Corte costituzionale), parteciperanno Francesco Viganò (professore di diritto penale e giudice della Corte costituzionale), Marilisa D'Amico (professoressa di diritto costituzionale e docente di giustizia costituzionale presso l’Università degli Studi di Milano), Ilio Mannucci Pacini (magistrato presidente della terza sezione penale del Tribunale di Milano) e Cinzia Calabrese (avvocatessa, consigliera dell’Ordine degli Avvocati di Milano e presidente AIAF – Associazione Italiana degli Avvocati per la Famiglia e per i Minori).