La pandemia ha inferto un duro colpo al cammino verso la parità di genere e la ripresa del percorso si sta rivelando più complessa del previsto. Lo segnala il Global Gender Gap Report 2022 pubblicato da World Economic Forum. Un dato sintetizza la situazione complessiva dei 146 Paesi presi in esame: occorreranno 132 anni per colmare il gender gap a livello mondiale. E, in questo contesto, l’Italia non vive una situazione felice, collocandosi ancora una volta al 63esimo posto della graduatoria stilata dal report. Gli indicatori che hanno consentito di formare la classifica - dalla partecipazione delle donne al mondo del lavoro a quella politica, dallo studio alla salute - fotografano una situazione con poche luci e tante ombre. «Il momento che viviamo è difficile dal punto di vista geopolitico ed economico e, come sempre avviene in questi casi, il tema del gender gap passa in secondo piano», osserva la professoressa Carmen Leccardi, che si occupa di Sociologia dei processi culturali e comunicativi. Per fissare il punto da cui partire, la docente prende spunto dalla storia della studentessa dell’Itis “Galilei” che, unica ragazza dell’indirizzo Meccanica, è stata anche l’unica a diplomarsi con 100. Al Corriere della Sera, che l’ha intervistata, ha detto dei suoi compagni di classe: “Forse qualcuno faceva il tifo per me, ma in silenzio”. «Il fatto che i compagni tifassero per lei senza esporsi pubblicamente - rimarca Leccardi - è la riprova di come, anche tra i giovanissimi, ci siano ancora pregiudizi radicati. Nella vita quotidiana prendere apertamente posizione a favore dell’eguaglianza tra i generi non è ancora la norma».
Il report del World Economic Forum colloca ai primi cinque posti quattro Paesi del Nord Europa - Islanda, Finlandia, Norvegia e Svezia - e la Nuova Zelanda. Sul versante opposto della graduatoria, nel contesto continentale solo Romania, Cipro e Grecia si piazzano peggio dell’Italia. «Siamo abituati a vedere la Spagna come una realtà quasi gemella rispetto alla nostra. Dobbiamo, quindi, chiederci come mai ci separino 46 posizioni», afferma la professoressa che inquadra il fenomeno dal punto di vista storico: «Stentiamo a liberarci da un retaggio che ci viene dal ventennio fascista. La Spagna ha posto fine molto dopo alla dittatura franchista, ma è stata più rapida nel mettere da parte certi stereotipi».
Uno degli ambiti in cui più forte è il gap, è quello lavorativo sia per quanto riguarda la partecipazione femminile al mondo del lavoro che per il divario retributivo a parità di mansioni e competenze. «Per quanto riguarda il gender pay gap si tratta purtroppo di un problema generalizzato. Basti pensare che l’Islanda, che è il Paese in cui la differenza di genere è più bassa, qualche anno fa ha dovuto far ricorso ad una legge per impedirlo».
In ambito accademico, il gender gap si registra soprattutto tra i professori di prima fascia, anche se in Italia si tratta di un fenomeno più contenuto che altrove. «In Bicocca abbiamo una rettrice donna e anche chi l’ha preceduta è una donna. Questo ha consentito di avere un indirizzo preciso per le politiche finalizzate a ridurre il divario». Altre misure sono state messe in campo dal Gender Equality Plan, la cui seconda edizione è stata presentata a maggio scorso. Una di queste punta a sostenere nei periodi di congedo per maternità chi fa ricerca. «La carriera accademica richiede impegno costante. Quello della maternità è un momento critico, quindi ben venga, da questo punto di vista, la considerazione attenta – ad esempio per quel che riguarda il numero delle pubblicazioni – di chi vive questa esperienza».
A fronte di una consapevolezza ormai acquisita del valore della parità di genere, persistono comportamenti che, nei fatti, la ostacolano. «Un’indagine realizzata dal Pew Research Center durante la pandemia mostra come, in linea di principio, uomini e donne credano nell’uguaglianza di genere. E, in effetti, è dimostrato che le donne ottengono ottimi risultati nella formazione terziaria, hanno capacità di leadership indiscussa e sono abili nel tenere insieme più mondi. Da noi, tuttavia, resiste la teoria della prevalenza maschile: se, ad esempio, c’è da affidare un incarico di lavoro, viene data priorità agli uomini. Occorre che si alzi una voce collettiva contro questo inaccettabile gap. E occorre che ciò avvenga in tutti i settori».
Se il traguardo della parità è ancora lontano, la professoressa Leccardi appare più fiduciosa rispetto ai 132 anni ipotizzati dal Report per raggiungerlo a livello globale. «Mi auguro che questo possa avvenire nel giro di un paio di generazioni. Se guardiamo indietro, nel medio periodo, in Italia ci sono aree in cui la situazione è molto migliorata. Penso alla formazione universitaria, ma anche alla capacità di costruire progetti di vita ambiziosi, capaci di tenere insieme obiettivi professionali e privati. Di contro, registriamo un aumento del precariato femminile, oltre alla persistenza del peso degli impegni di cura prevalentemente sulle spalle delle donne. Così, come, purtroppo, non si registrano miglioramenti per quanto riguarda il problema della violenza di genere che, a differenza di ciò che spesso si pensa, è trasversale rispetto a fasce d’età e condizioni sociali».
L’Italia sta mettendo sul tavolo le risorse del Pnrr. La riduzione del divario di genere è vista come una dimensione trasversale rispetto a tutte le misure che il Piano prevede. Per la professoressa Leccardi si tratta di un’occasione importante che arriva su impulso dell’Unione Europea, ma che da sola non è detto possa bastare: «Il fatto che il tema del genere vada tenuto in considerazione in tutte le aree, il cosiddetto gender mainstreaming, è diventato tema centrale del discorso pubblico e delle politiche a partire dalla Conferenza mondiale delle Nazioni Unite sulle donne che si è tenuta a Pechino nel 1995. Non sottovaluto certamente l’importanza di un approccio secondo questa prospettiva, ma senza una parallela battaglia culturale - capace di investire l’intero edificio sociale, dalla formazione al lavoro alle forme di comunicazione - i progressi ottenuti grazie a singole misure, pur importanti, non potranno diventare risolutivi. In termini generali, per la riduzione del gender gap sotto il profilo sociale e culturale, ritengo poi fondamentale il passaggio da un’ottica di conciliazione, che di fatto coinvolge solo le donne, a una di condivisione, che riguarda anche gli uomini. Le responsabilità di cura vanno infatti equamente ripartite tra i generi».