L’emergenza sanitaria da Covid-19 sta mettendo a dura prova interi Paesi. Secondo la Johns Hopkins University of Medicine, di 193 Stati riconosciuti delle Nazioni Unite, 184 sono le nazioni colpite. Gli Stati Uniti hanno ora scalato la triste classifica dei contagi. Ma come viene affrontata oltreoceano la pandemia? Ne parliamo con Marina Calloni, professoressa di filosofia politica e sociale presso l'Università di Milano-Bicocca, che - grazie a una fellowship - da gennaio fino a pochi giorni fa ha lavorato presso l’Italian Academy for Advanced Studies in America alla Columbia University di New York.
Come mai ha deciso di tornare in Italia proprio adesso, nel pieno dell’emergenza?
La mia scelta è stata ben ponderata: conscia della situazione italiana, ho cercato di combinare le informazioni scientifiche che ricevevo da esperti con l’aspetto emotivo della tenuta psicologica. Fra noi ricercatori all’Academy abbiamo a lungo discusso sul da farsi: abbiamo cercato di andare in contro-curva rispetto all’ampliamento dell’infezione in una metropoli dove saremmo rimasti intrappolati, con un sistema sanitario assolutamente carente e con il presidente Trump che – dopo aver abrogato le misure sanitarie dell’Obamacare - ancora il 28 febbraio affermava che il coronavirus “sarebbe sparito un giorno come un miracolo". Non c’erano le garanzie necessarie per poter rimanere a lungo a New York, soprattutto come stranieri. Meglio tornare con un sistema sanitario nazionale più affidabile e nelle proprie case.
Quali precauzioni e indicazioni le sono state fornite dalla Columbia University?
Il 9 marzo ci è arrivato il primo messaggio da parte del Presidente della Columbia University, Lee Bollinger, relativo alla prima persona messa in quarantena. Due giorni dopo, l'OMS avrebbe riconosciuto il pericolo pandemico. A partire dal 12 marzo, sono state dapprima sospese le lezioni, facendole svolgere on line, e poi man mano sono state cancellate tutte le attività accademiche, con la chiusura di uffici, biblioteche e residenze per studenti. Prevedendo anche una crisi alimentare per la popolazione locale, ho cercato di raccogliere velocemente da colleghi e studenti in partenza, il cibo non deperibile che avevano a disposizione. Siamo così riusciti a consegnare 8 scatoloni di viveri ad una charity che lavora per i senza tetto in una New York ormai priva di quell’energia vitale che la caratterizza.
Com’è stato il viaggio di ritorno?
Il volo da New York era stracolmo, anche perché era ormai rimasto soltanto un volo al giorno e solo per Roma. Avevamo tutti la mascherina e disinfettanti. C’era un’evidente tensione: ogni possibile colpo di tosse è stato trattenuto... Molto gentile il personale di bordo e commovente una hostess quando, nonostante fosse stravolta dalla fatica, all’arrivo mi ha detto: siamo qui per portarvi tutti a casa. Arrivati a Milano-Malpensa, ci hanno misurato la febbre con lo scanner. Abbiamo dovuto certificare alla polizia il nostro arrivo con l’impegno di notificare all’ATS di riferimento il nostro ritorno, con quarantena precauzionale e misurazione della febbre due volte al giorno.
Come mai una dichiarazione dello stato di emergenza così tardiva da parte degli Stati Uniti?
Negli Stati Uniti l’infezione da Covid-19 è stata prima rimossa dal discorso pubblico e poi sottovalutata nella sua effettiva portata. C’è stato il negazionismo del presidente Trump, preoccupato più dell’andamento dell’economia – e dunque della sua rielezione – che della salute pubblica. In un Paese dalle forti disuguaglianze sociali, saranno maggiormente i poveri a dover morire non perché più infettati, ma perché meno curati. Altro fattore determinante: l’infuocato dibattito sulle primarie presidenziali nello scontro fra i due maggiori avversari rimasti, Biden e Sanders, che ha a lungo catalizzato l’interesse dell’opinione pubblica a discapito dell’emergenza sanitaria. Ora, il dibattito sul Covid-19 è al centro di ogni discussione pubblica e politica, anche se in modo sempre molto polarizzato.
Una delle differenze sostanziali tra Italia e Stati Uniti risiede nella sanità….
La differenza fra Italia e Stati Uniti nel trattare il Covid-19 non ha soltanto riguardato il diverso sistema sociale e il diritto alla salute, bensì il ruolo stesso della scienza nel definire situazioni critiche, possibili misure o eventuali soluzioni, in relazione al potere politico, se non economico. Fin da subito, il governo italiano ha goduto dell’assistenza di rappresentanti dell’OMS e di scienziati, decidendo di essere trasparente nell’indicare il numero ufficiale dei morti e dei contagi. Opposta è stata invece la posizione di Trump che ha sempre diffidato della scienza. È ormai noto il contrasto con Anthony Fauci (direttore del National Institute of Allergy and Infectious Diseases): Trump, per paura di essere contraddetto, gli impedisce spesso di intervenire nel briefing quotidiano. Il presidente ha delegato le decisioni a governatori e sindaci. Ma la crisi da pandemia richiede una regia politica integrata con una strategia regolata e condivisa fra le diverse forze in campo.
Qual è allora il ruolo che i governatori hanno assunto di fronte all’emergenza?
Qui diventano cruciali due uomini politici (di origine italiane) dalla forte autorevolezza, il sindaco di New York Bill de Blasio e il governatore dell’omonimo Stato Andrew Cuomo. In particolare, nei suoi interventi ormai quotidiani e nelle decisioni che sta prendendo, Cuomo sembra aver assunto un ruolo quasi presidenziale. La crisi da Covid-19 ha infatti messo in luce l’incapacità di affrontare il problema nel suo complesso a livello federale, così come una errata idea di “libertà individuale” a scapito del bene collettivo. Intanto le elezioni nazionali del 3 novembre si avvicinano sempre più, mentre lo scontro fra i candidati democratici è ancora aperto. Le primarie sono state però nel frattempo parzialmente sospese. La democrazia americana è molto più fragile di quanto si pensi. La pandemia sta infatti avendo effetti importanti e controversi sulla politica, sui processi parlamentari, ma anche sulla stessa tenuta dei principi liberali. E ciò vale anche per istituzioni sovra-nazionali come l'Unione Europea: spero che siano applicati i valori fondanti dell’Unione in senso sostanziale, affinché il Covid-19 non diventi l’inizio della decostruzione di un progetto mai completamente realizzato.
Cosa possiamo imparare da questa crisi?
L’attuale crisi sanitaria ha indicato la necessità di ripensare le priorità a livello sia pubblico che privato. “Nessuno si salva da solo”, dovendo convivere a lungo col pericolo del contagio. Alle istituzioni democratiche è richiesto un approccio scientifico al problema della pandemia che la politica dovrà interpretare, sulla base di competenze specifiche, spesso deprezzate in anni recenti nel discorso pubblico. Come ricercatrici e ricercatori universitarie/i avremo molto di che lavorare sul tema per poterlo comprendere meglio, per aiutare a dare natalità alla “ricostruzione” e concepire una nuova idea di futuro. Forse questa volta non è più sufficiente parlare solo di un ineluttabile neo-umanesimo o di un necessario ambientalismo: bisogna ideare una nuova alleanza fra umani e natura in un più ampio “orizzonte cosmico”. Questa non è una crisi periodica: si tratta di un cambiamento paradigmatico di civiltà.