È stato presentato lo scorso giugno il report statistico 2025 sulla povertà in Italia prodotto dalla Caritas. Con l’aiuto del sociologo David Benassi, autore con Chiara Saraceno ed Enrica Morlicchio di un libro che è diventato un punto di riferimento per l’analisi del fenomeno, proviamo a far luce sulle sue caratteristiche.
Comincerei con l’inquadrare le caratteristiche metodologiche del report Caritas in confronto con altre indagini sul tema
Il lavoro che fa Caritas è meritorio, si basa sui dati che raccolgono tra le persone che si rivolgono ai loro centri di ascolto. Naturalmente non è un campione rappresentativo di tutta la popolazione povera, sono persone che possono avere dei bisogni che per qualche motivo non riescono a soddisfare: problemi educativi, di salute mentale, di indigenza o altro. È molto interessante il lavoro che Caritas fa per la capillarità della sua presenza sul territorio, ma i suoi dati non sono direttamente comparabili con quelli di altre fonti: ISTAT, Eurostat, Banca d’Italia. È uno studio su un target di popolazione sul quale la Caritas riesce a fare una serie di approfondimenti sul tipo di bisogni espressi che le altre indagini non riescono a fare. Diciamo che Caritas è un attore fondamentale del sistema di welfare italiano che, come è noto, si appoggia in modo consistente sulla fitta rete di organizzazioni del terzo settore presente sul territorio nazionale.
Quello che colpisce leggendo i dati sulla povertà è l’andamento sul lungo periodo
La serie storica della povertà assoluta comincia nel 2005 e in quell’anno rientrava in quella fascia il 3.5% della popolazione in Italia, oggi siamo al 10%, quindi è quasi triplicata nel giro di vent’anni, e non è andata così negli altri paesi europei. Anche altrove c’è stata una crescita del dato in corrispondenza con le crisi economiche, ma normalmente la povertà assoluta tende a venir riassorbita seguendo i cicli dell’economia. In Italia questo recupero non c’è stato, si iniziava ad intravedere qualcosa intorno al 2018-19, ma poi la pandemia ha dato un ulteriore impulso. Preciso che stiamo parlando di povertà assoluta, una condizione per cui le famiglie non sono in grado di soddisfare i loro bisogni primari: un alloggio adeguato, una dieta sufficiente o equilibrata, il riscaldamento, l’acquisto di materiale scolastico per i figli etc.
In particolare, il report di quest’anno sembra indicare due criticità: abitazione e salute
Per esempio, a Milano il tema casa sta diventando un’emergenza sempre più evidente. È una città emblematica di alcuni processi sociali: la popolazione, contrariamente a quello che si potrebbe pensare, mostra un tendenza al ringiovanimento perché attrae giovani professionisti da tutta Italia e anche dall’estero che vengono a lavorare nell’ambito della moda, della finanza, della comunicazione. Di contro abbiamo nuove famiglie che, quando hanno dei figli, per mantenere una buona qualità della vita si trasferiscono fuori Milano e infatti i prezzi si stanno alzando molto anche nell’hinterland. Coloro che sono occupati nei settori a più bassa qualificazione professionale: ristorazione, pulizie, logistica, hanno minori possibilità di andare fuori Milano perché lavorano su orari molto scomodi: per questo tipo di figure il sistema entra in crisi. Non a caso, come si vede anche nei dati ISTAT, la povertà assoluta in proporzione è cresciuta più nel Nord che nel Mezzogiorno, il tradizionale divario tende a ridimensionarsi. C’è una forte polarizzazione delle condizioni professionali: una fascia della popolazione ha un alto tenore di vita e un’altra vive di salari bassi, di lavoro intermittente, con poca o nessuna protezione sociale. Al contrario dell’idea diffusa per cui la ricchezza sgocciola verso il basso, la ricchezza a Milano ha prodotto più povertà.
Tra le misure di contenimento la più famosa e controversa è stata il “reddito di cittadinanza”
Purtroppo per le modalità con cui è stata introdotta ha finito per essere troppo politicizzata, è diventato un elemento talmente identitario di una parte che le altre forze politiche l’hanno contrastato non nel merito, ma perché era una bandiera. Invece era semplicemente un mettersi al passo con gli altri paesi europei. Misure di sostegno del reddito ce n’erano anche prima e ce ne sono state dopo, ma tra i vari modelli è molto chiaro che il più efficace è una forma di sostegno universale ai cittadini in condizione di precarietà economica, non a seconda della categoria: gli anziani, le persone con disabilità, le famiglie monogenitoriali, gli immigrati e così via. L’Unione europea da trent’anni manda raccomandazioni ai paesi membri perché si dotino di questa misura ed è stata una richiesta esplicita a tutti i paesi dell’Europa orientale quando hanno chiesto l’ingresso. Nell’ultimo anno in cui è stato in vigore si sono spesi circa otto miliardi di euro, cifra significativa in sé, ma sopportabile per un paese come l’Italia, specie se la raffrontiamo con quanto si spende per pensioni, sanità, contributi alle imprese e così via. Gli abusi ci sono stati, ma ci sono per qualsiasi tipo di spesa lo stato italiano faccia. Se non ci fossero stati il reddito di cittadinanza e le altre misure di sostegno, secondo ISTAT e Banca d’Italia, dopo la pandemia avremmo avuto un milione di poveri in più.
Cos’altro emerge dal report Caritas?
Un aspetto molto importante è la cronicità della povertà, in Italia c’è una forte persistenza della povertà, non è un’esperienza temporanea nel ciclo di vita di una persona o del nucleo familiare. Più che in altri paesi è una condizione cronica, che permane attraverso le generazioni. Il profilo di rischio povertà per classi di età è esemplare: in Italia è massimo tra i minorenni e poi diminuisce ad ogni classe di età successiva, ed è minimo tra gli anziani. In Danimarca, per esempio, è completamente diverso: la povertà è molto bassa tra i minorenni, è massima tra i giovani adulti - tra i 18 e i 24 anni - e poi inizia a diminuire, è minima dai 55 ai 64 anni e poi risale un poco. Questo parametro ci dice molto sulla cronicità della povertà: produciamo tanti minori poveri, una buona parte dei quali rimarrà povero.