Barriere coralline: il restauro non basta. Serve un intervento globale - Bnews Barriere coralline: il restauro non basta. Serve un intervento globale

Barriere coralline: il restauro non basta. Serve un intervento globale

Barriere coralline: il restauro non basta. Serve un intervento globale
Operatore subacqueo su una "rope nursery", ovvero il vivaio dove si fanno crescere i coralli prima della fase di trapianto.

Restaurare le barriere coralline può salvarle dagli effetti dei cambiamenti climatici? Purtroppo non basta: a dirlo è un nuovo studio, pubblicato sulla rivista Nature Ecology and Evolution, condotto dal Joint Research Center di Ispra, dall'Università di Helsinki, dalla Flinders University (Australia) e dall'Università di Milano-Bicocca. Ne abbiamo parlato con uno degli autori, Simone Montano, ricercatore al MaRHE center, avamposto alle Maldive dell’Università di Milano-Bicocca. «Le barriere coralline non sono solo uno degli ecosistemi più ricchi di biodiversità sulla Terra, ospitando il 25% della biodiversità marina: si tratta di un ecosistema che fornisce anche innumerevoli e indispensabili servizi a circa un miliardo di persone in termini di approvvigionamento alimentare (proteine), oltre a protezione dalle tempeste e dall'erosione costiera», spiega Montano. Tuttavia le barriere coralline sono in crisi. L'aumento delle temperature oceaniche, l'acidificazione degli oceani, le malattie, l'inquinamento e la pesca intensiva stanno infatti spingendo questi ecosistemi vitali al collasso.

Una delle strategie utilizzate per salvare questo ecosistema è la ricostruzione attiva dell’habitat attraverso tecniche di “coral restoration”: quando i coralli muoiono o vengono danneggiati, si cerca di ripristinarli fisicamente trapiantando coralli sani in zone danneggiate. «La triste realtà è che oltre un terzo di tutti gli sforzi di ripristino dei coralli falliscono e le ragioni sono diverse», continua Montano. «Innanzitutto non esiste ancora una strategia ben coordinata e scientificamente fondata per guidare tali sforzi. In altre parole, gli sforzi di ripristino sono in corso, ma non sembrano essere pianificati in modo sistematico o secondo dati ecologici e climatici». A remare contro sono barriere finanziarie e logistiche, una pianificazione carente, l’utilizzo di tecnologie e tecniche non collaudate, uno sforzo di monitoraggio spesso insufficiente. L’aumento delle ondate di calore legate ai cambiamenti climatici limitano poi gli obiettivi a lungo termine di questi sforzi.

Il metodo del "coral watch card" per monitorare lo stato di sbiancamento delle colonie di corallo.
Il metodo del "coral watch card" per monitorare lo stato di sbiancamento delle colonie di corallo.

Un altro elemento critico riguarda la scelta dei luoghi in cui intervenire. La ricerca mostra che i progetti di restauro si concentrano spesso in aree vicine agli insediamenti umani. Una scelta che può sembrare pratica, ma che espone le barriere restaurate a forti pressioni antropiche, come l’inquinamento o la pesca intensiva. «La selezione dei siti tende a privilegiare le zone più facilmente accessibili, piuttosto che quelle che presentano le migliori condizioni ecologiche o il maggior bisogno di intervento», osserva Montano. Una conseguenza di questo approccio è che molte barriere restaurate si trovano in ambienti già fortemente compromessi, riducendo così le possibilità di successo a lungo termine.

A ciò si aggiunge un’ulteriore limitazione: la maggior parte degli interventi coinvolge solo poche specie di coralli, selezionate perché più facili da allevare e trapiantare. Questa scelta tecnica, sebbene comprensibile, riduce la biodiversità all’interno degli ecosistemi ricostruiti. «Anche se si riesce ad aumentare la copertura corallina», spiega Montano, «non si ripristina la diversità necessaria per garantire la funzionalità dell’intero ecosistema».

Maldive. Ricercatori del MaRHE center dell'Università di Milano-Bicocca durante la fase di restauro della scogliera corallina danneggiata.
Maldive. Ricercatori del MaRHE center dell'Università di Milano-Bicocca durante la fase di restauro della scogliera corallina danneggiata.

C’è poi la questione della scala. Mentre il degrado delle barriere coralline ha colpito aree vastissime - si stima che tra il 2009 e il 2018 siano andati persi quasi 12.000 chilometri quadrati di habitat - la maggior parte dei progetti di ripristino copre superfici di poche centinaia o migliaia di metri quadrati. Un divario che evidenzia come le attuali iniziative non siano in grado di compensare le perdite provocate dai cambiamenti climatici e da altre minacce ambientali.

Il cambiamento climatico, in particolare, è una delle principali minacce. Gli eventi di sbiancamento, sempre più frequenti a causa del riscaldamento globale, colpiscono anche le barriere appena restaurate. «Quando le temperature marine restano sopra la media per troppo tempo, i coralli espellono le alghe simbiotiche da cui dipendono, perdono colore e vanno incontro a un elevato rischio di mortalità», racconta Montano. «Dall'inizio del 2023, un gravissimo evento di sbiancamento di massa dei coralli si è verificato in tutti i tropici e in alcune parti dell'Oceano Indiano. Ma gli eventi di sbiancamento e la moria dei coralli diventeranno sempre più comuni: oltre il 90 per cento delle barriere coralline è a rischio di degrado a lungo termine entro la fine del secolo. Lo studio mostra che più della metà delle barriere restaurate (il 57%) subisce un evento di sbiancamento entro cinque anni dall’intervento, con un grave impatto sugli investimenti e sugli sforzi messi in campo».

Un operatore subacqueo durante la fase di monitoraggio dei coralli
Un operatore subacqueo durante la fase di monitoraggio dei coralli

È per questo che i ricercatori propongono un nuovo approccio al restauro, basato su una pianificazione più olistica e fondata sui dati. Uno degli strumenti più efficaci sarebbe la creazione di un database centralizzato e “open-source”, che raccolga in modo sistematico le informazioni disponibili sui progetti di ripristino. Questo permetterebbe di migliorare il monitoraggio a lungo termine, aumentare la trasparenza, favorire la collaborazione e orientare meglio le decisioni. Oggi, infatti, la maggior parte dei progetti viene monitorata per meno di 18 mesi: un intervallo troppo breve per valutarne l’efficacia.

Per selezionare i siti più adatti al ripristino, sottolinea Montano, è necessario considerare diversi fattori: la vicinanza ai grandi insediamenti umani, l’impatto dell’inquinamento, la pressione della pesca e, soprattutto, le proiezioni climatiche future. Solo unendo queste informazioni sarà possibile costruire interventi efficaci e duraturi.

Operatore subacqueo su una "rope nursery", ovvero il vivaio dove si fanno crescere i coralli prima della fase di trapianto.
Operatore subacqueo su una "rope nursery", ovvero il vivaio dove si fanno crescere i coralli prima della fase di trapianto.

Ecco perché il restauro delle barriere, da solo, non basta. Come conclude Montano, «è necessario un cambio di strategia per garantirne la sopravvivenza». Questo significa impegnarsi sul fronte globale per ridurre le emissioni di carbonio e contenere il riscaldamento degli oceani. Ma significa anche agire a livello locale, proteggendo gli ecosistemi più vulnerabili, espandendo le aree protette e limitando le attività distruttive. «Solo una strategia integrata, che coinvolga scienziati, istituzioni politiche e comunità locali», sottolinea Montano, «potrà davvero fare la differenza per la sopravvivenza di questi ecosistemi straordinari».