Il 30 luglio si celebra la Giornata Mondiale dell’Amicizia, un’occasione preziosa per riflettere su uno dei legami più significativi della nostra vita. Proclamata dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 2011, riconoscendo l'importanza dell'amicizia come "sentimento nobile e prezioso nella vita degli esseri umani in tutto il mondo", la Giornata celebra l'amicizia tra popoli, paesi, culture e individui, con l’obiettivo di ispirare gli sforzi di pace e costruire ponti tra le comunità.
Ma cosa significa oggi essere amici, in un mondo dove gran parte delle relazioni si sviluppa attraverso uno schermo?
Ne abbiamo parlato con Alessandra Santona, docente di Psicologia dinamica all’Università di Milano-Bicocca.
In un tempo in cui le relazioni sembrano correre sui binari della tecnologia, che forma assume oggi l’amicizia?
Parlare di amicizia oggi significa inevitabilmente confrontarsi con un mondo iperconnesso: passiamo in media circa nove ore al giorno davanti ad uno schermo, e una parte significativa della nostra vita relazionale si svolge online. Questo non è un dettaglio, ma un elemento che incide profondamente sul processo di socializzazione, sulla costruzione dell’identità nei più giovani e sul consolidamento del sé negli adulti. L’amicizia resta comunque un aspetto centrale della nostra esistenza, un indicatore di benessere che, come psicologi, cerchiamo di riconoscere e sostenere.
I luoghi del vivere e dell’abitare non sono più gli unici spazi di socializzazione: le dinamiche relazionali si sono trasferite anche sulla rete, che ha caratteristiche peculiari come la velocità e una certa frammentarietà.
Tuttavia, non credo sia corretto demonizzare questo nuovo scenario. Al contrario, la letteratura e l’esperienza clinica dimostrano che le tecnologie possono favorire il mantenimento dei legami, specialmente quelli a distanza. Possono facilitare l’espressione dell’empatia, il sostegno emotivo e la condivisione di interessi – non solo tra adolescenti, ma anche tra adulti.
L’amicizia dunque è ancora un legame capace di profondità, oppure rischia di diventare un’esperienza superficiale e frammentata, come le storie che scorriamo sui social?
Le amicizie online, se ben gestite, possono rafforzare il senso di appartenenza e contribuire al benessere emotivo, soprattutto per chi trova più difficile relazionarsi faccia a faccia. D’altro canto, però, è importante non perdere di vista anche i rischi.
Un uso eccessivo o compulsivo dei social può portare a sentimenti di isolamento, ansia, depressione e bassa autostima. Alcuni studi indicano che le relazioni online, se vissute in modo esclusivo, possono risultare più superficiali e meno appaganti rispetto a quelle in presenza. E c’è anche il pericolo che queste relazioni digitali finiscano per sostituire completamente quelle vis-à-vis, riducendo così le opportunità di sviluppare competenze sociali fondamentali, che si apprendono soprattutto attraverso il corpo e la presenza fisica dell’altro.
Il corpo nelle relazioni amicali resta, ancora oggi, un elemento centrale per tutte le età.
Professoressa Santona, nel suo lavoro con adolescenti e giovani adulti, quali segnali coglie rispetto al bisogno di amicizia autentica?
Nel nostro lavoro quotidiano, sia negli adolescenti che nei giovani adulti, rileviamo un forte bisogno di amicizia e appartenenza, che oggi si esprime anche attraverso l’interazione digitale. I social, le chat e persino i videogiochi diventano strumenti attraverso cui costruire e mantenere legami. C’è una parte della letteratura che sottolinea come queste competenze digitali possano moltiplicare le relazioni, ma talvolta a scapito di quelle più profonde e reali.
È proprio in questa tensione che si colloca il tema del benessere psicologico: alcuni studi mostrano una correlazione tra l’eccessivo uso dei social e un peggioramento della qualità delle relazioni, e quindi anche del sentimento di amicizia.
Si tratta infatti di una relazione complessa, e come tale va affrontata. Molti ragazzi e ragazze, ad esempio, sperimentano la cosiddetta FOMO (Fear Of Missing Out), cioè la paura di essere esclusi da esperienze gratificanti vissute dagli altri, che li spinge a restare costantemente connessi. A questo si aggiunge la FOBO (Fear Of Being Offline), cioè il bisogno compulsivo di controllare continuamente i social per non perdersi nulla.
Questi comportamenti possono sfociare in vere e proprie forme di dipendenza, come la social media addiction o l’internet gaming disorder, che spesso portano al ritiro sociale, soprattutto in età scolare.
Esiste, secondo lei, un “codice affettivo” che andrebbe recuperato per costruire relazioni più sane e durature?
Alla luce di tutte queste dinamiche di relazione così articolate, non possiamo limitarci a dividere la tecnologia in “buona” o “cattiva”. Dobbiamo invece accompagnare i ragazzi in un percorso di crescita che tenga conto della complessità del tempo in cui vivono.
A questo scopo, nel nostro lavoro clinico e educativo, facciamo spesso riferimento a quella che chiamiamo la tecnica delle 3A: Accompagnamento, Alternanza e Autoregolazione. Accompagnamento significa non lasciare soli gli adolescenti nel loro rapporto con il digitale, ma guidarli e restare presenti. Alternanza vuol dire aiutare a stabilire un equilibrio tra online e offline, tra schermo e realtà. Autoregolazione, infine, è la capacità di riconoscere e gestire le proprie emozioni senza affidarsi esclusivamente ai dispositivi digitali.
L’amicizia, da questo punto di vista, resta un laboratorio insostituibile di crescita, una base sicura, una fonte profonda di confronto e benessere, tanto per i giovani quanto per gli adulti.