Quale senso ha, nel 2022, la Giornata della Memoria, dopo 80 anni dall’Olocausto? A Barbara Bracco, docente di storia contemporanea di Milano-Bicocca, abbiamo chiesto un’analisi storica e sociale sull’evoluzione di questa ricorrenza.
Professoressa, quale valore ha oggi la celebrazione di questa Giornata?
Innanzitutto va detto che il rapporto tra passato e memoria si sta inevitabilmente spezzando. La progressiva scomparsa dei sopravvissuti sta privando gli europei di testimonianze che sono state per molto tempo decisive nel richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica sull’esperienza unica dell’Olocausto.
Per oltre un decennio inoltre, dopo il 1945, l’esperienza dei campi è stata oggetto di una rimozione collettiva nei Paesi occupati dalle truppe tedesche. Basti pensare che nemmeno i processi di Norimberga erano riusciti a sollevare del tutto il velo sull’enormità del genocidio. È stato proprio grazie alla voce di alcuni superstiti e al processo ad Adolf Eichmann in Israele nel 1961 che lentamente si è fatta largo una maggiore consapevolezza del carattere straordinario della violenza della macchina industrialmente sterminatoria del regime nazista.
Per cittadini europei che in maggioranza non hanno vissuto gli anni della Guerra, è difficile quindi capire?
Le generazioni che non hanno vissuto l’orrore dei campi si trovano strette tra due forze socio-culturali assai diverse. Da un lato, la trasmissione delle testimonianze e la politica della memoria (adottata da Israele ovviamente, ma anche dall’Unione europea) hanno favorito la costruzione di un racconto pubblico della Shoah che partendo proprio dalla memoria culturale (per usare l’espressione di Aleida Assmann), cioè il passaggio dei ricordi dalla generazione dei padri a quelle dei figli e dei nipoti, ha infine collocato quell’esperienza storica in un quadro di senso civile e storico. L’istituzione della Giornata della memoria rappresenta da questo punto di vista il completamento di un processo di costruzione della memoria avviata da cinquant’anni a questa parte.
Ma d’altro canto, la lezione del passato rischia di finire impigliata in un “sensazionalismo emozionale” favorito dai mezzi di comunicazione dove tutto diventa trauma, dolore, rischiando così di far perdere la specificità dei singoli eventi e la loro portata storica.
“Memoria, consapevolezza e responsabilità”: sono i tre passi, indicati dal direttore del Memoriale di Auschwitz, che l’uomo dovrebbe compiere di fronte a quanto successo. Concorda con questa analisi?
Le parole del direttore del Memoriale di Auschwitz disegnano un percorso largamente condivisibile. Non possono esserci consapevolezza e responsabilità senza la memoria ma anche senza la storia.
Se, come dicevo, a prevalere è un indistinto “paradigma vittimario”, come lo ha definito Giovanni De Luna, è fondamentale consolidare le conoscenze storiche sulla Shoah e consegnare alla coscienza collettiva come quando dove perché sei milioni di ebrei e altri milioni di persone tra sinti e rom, omosessuali, testimoni di Geova, deportati politici e militari sono stati inghiottiti dall’infernale industria delle camere a gas.
A che punto siamo oggi in questo cammino?
Che tutto questo porti alla consapevolezza e alla responsabilità non è affatto scontato. È un processo complesso ostacolato da molti fattori come il pregiudizio politico ma anche da una forma di resistenza emotiva ad “accogliere” l’enormità di quanto è avvenuto.
Il passato ci suggerisce di fare attenzione alle aspettative che possiamo nutrire sulle responsabilità. Fare i conti con la storia è sempre un’operazione difficilissima perché mette in discussione anche tratti identitari: guardarsi allo specchio non è facile per nessuno. E lo dimostra il fatto che i Paesi europei, oltre alle innegabili colpe tedesche, raramente si sono fatti carico delle responsabilità storiche dell’antisemitismo che ha storicamente contrassegnato la storia francese, inglese e – bisogna dirlo chiaramente – anche italiana.
Secondo lei, quali strumenti sono più utili a mantenere la memoria?
Inevitabilmente, le voci dei superstiti sono destinate a spegnersi, ma risuonano ancora nelle testimonianze registrate, soprattutto negli ultimi trent’anni, dai molti centri di documentazione e di ricerca in Europa e negli USA.
Penso per esempio alla Shoah Foundation fondata da Steven Spielberg che conserva oltre cinquantamila interviste raccolte in decine di Paesi e in una trentina di lingue; allo Yad Vashem di Gerusalemme dove alla ricostruzione dell’enormità del genocidio si abbina la strategia culturale fondamentale di restituire un volto, un’identità a uomini, donne e bambini annientati dalla macchina dello sterminio; all’opera di raccolta di immagini e documenti svolta per esempio dal Memoriale della Shoah e da altre benemerite istituzioni milanesi e italiane.
Credo che, per quanto utile possa essere la sensibilizzazione promossa da film, spettacoli, rivisitazioni artistiche di ogni genere, la consapevolezza e la responsabilità debbano passare per forza attraverso la condivisione del vasto patrimonio documentario.
Le emozioni purtroppo sono effimere, la storia un po’ meno.