Viviamo un incrocio storico che ha impattato in maniera forte e destabilizzante su tutti noi: prima la pandemia, poi la guerra. Nel primo caso, qualcosa di sconosciuto, nel secondo un evento spesso ritenuto distante da noi, ora ci toccano entrambi da vicino. Come stiamo reagendo noi adulti e i nostri ragazzi a livello psicologico? Giuseppe Carrà, associato di psichiatria di Milano-Bicocca, delinea un quadro generale della situazione di salute mentale della popolazione e fornisce alcune ipotesi per le prospettive future.
Pandemia e guerra, situazioni eccezionali che la maggior parte di noi non ha mai conosciuto: come stiamo reagendo?
Innanzitutto va detto che lo strascico della pandemia aveva fatto emergere traiettorie eterogenee di gestione dello stress da pandemia all’interno della popolazione. È chiaro ormai, dopo due anni, che ci sono all’interno due sottocategorie con traiettorie del tutto differenti. Per cui se all’inizio c’è stato un forte impatto su tutta la popolazione, poi i processi son stati molto differenziati. Il mondo degli adulti, nella maggior parte, s’era ormai distinto per una traiettoria di adattamento. Ciò invece non è successo per le “popolazioni speciali” come gli adolescenti, per coloro che all’interno delle loro tappe evolutive fondamentali hanno sperimentato il lockdown, i quali vivono tuttora grandi difficoltà.
Innanzitutto, quale sentimento caratterizza questi giorni?
Mentre per la pandemia, l’emozione prevalente era l’incertezza, cioè il timore per qualcosa che non è conosciuto o che non si riesce a descrivere, ora si tratta di franca paura. Noi adulti sembreremmo tuttavia più in grado di rappresentarne le conseguenze secondarie (l’aumento del costo della benzina) rispetto alle primarie (l’ospedale distrutto dalle bombe). Inoltre, in qualche modo, attraverso i processi d’informazione, gli adulti provano a gestire lo stress, quasi a ”controllare” la realtà terrifica conoscendola, mentre la reazione dei ragazzi, non filtrata dalla conoscenza dettagliata della cronaca di guerra, è molto più autentica ma allo stesso preoccupante.
Quali sono le conseguenze di questa situazione sulla popolazione?
Gli adulti spesso sembrano sottovalutare la situazione e gli scenari futuri, mentre i ragazzi sommano emotività e rabbia sempre più complesse da gestire. Sono testimonianza di entrambe le reazioni sia episodi di cronaca quotidiana – dalle violenze delle baby gang alle più banali liti dovute a un senso d’ intolleranza diffusa – sia, in termini clinici, l’affanno dei servizi nel gestire la quantità di casi gravi con componente autolesiva. A mio avviso, in generale, le popolazioni occidentali ancora non hanno “mentalizzato” il concetto di guerra: la riduciamo a piccoli fatti quotidiani ma non la conosciamo in termini immanenti. D’altra parte, probabilmente, la socializzazione digitale degli adolescenti di oggi, ha fatto sì che loro, senza avere le conoscenze di base, abbiano cominciato più degli adulti ad averne rappresentazione. Così questa generazione già così provata diventa ancora più a rischio.
Come potrebbero allora essere d’aiuto gli adulti?
L’unica possibilità seria di aiuto da parte degli adulti è ristabilire un contesto, cioè una cornice con confini entro cui le esperienze evolutive possano esse fatte in sufficiente sicurezza. Una volta tolti i confini del lockdown, l’adolescente si è trovato in un mondo senza limiti, mentre la fisiologia vuole che possa esprimersi ma all’interno di un confine. Non un recinto, ma un perimetro che conosce e accetta. Il nostro compito oggi dovrebbe essere quello di offrire ancora questi perimetri. Questa per me è la scommessa per la salute mentale dei giovani, ora. Occorre attrezzarsi, senza negare la realtà, ma cercando di far leva su elementi più domestici che possono dar sicurezza ai ragazzi.
Cos’è necessario secondo lei?
Occorre avere la consapevolezza che per riprendere una propositività fattiva, che parta dalla mente e poi si traduca in azioni del singolo e della collettività, occorre necessariamente una mentalizzazione della perdita (“non disponiamo più della pace in una prospettiva indefinita, ma esiste la guerra”). L’assenza infatti del sentimento depressivo, di fronte all’evento “guerra” non esiste in natura. Solo attraverso questa premessa di “depressione feconda”, potremo procedere fisiologicamente oltre.