Un programma intenso ha caratterizzato il convegno che per due giorni, 5 e 6 dicembre, ha recentemente riunito tanti studiosi internazionali intorno all’universo di Kinoshita Keisuke, celebre regista giapponese, a 25 anni dalla sua scomparsa. Un’occasione rara di confronto per gli esperti che hanno presentato le proprie ricerche nel corso dell’evento curato da Giacomo Calorio e Andrea Maurizi, docenti del Corso di Studi in Comunicazione Interculturale dell’Università di Milano-Bicocca. Il convegno si è svolto con il patrocinio del Consolato Generale del Giappone a Milano, dell’Istituto Giapponese di Cultura e dell’Associazione Italiana per gli Studi Giapponesi (Aistugia). Lo stesso Console Generale Kobayashi Toshiaki ha presenziato ai saluti inaugurali insieme alla Direttrice di Dipartimento Cristina Palmieri e agli organizzatori.
Alla rilettura contemporanea della vasta opera di Kinoshita Keisuke ci guida Giacomo Calorio.
Facciamo il punto sul convegno: con quali esiti si è concluso?
Direi che sono emerse metodologie di studio diversificate e complementari che, mi pare, forniscono strumenti nuovi di indagine tramite i quali guardare a questo regista. Partendo da lontano, quando negli anni Cinquanta il cinema giapponese arrivò in Europa, incontrarono maggiore successo e distribuzione i film in costume. La maggior parte delle opere di Kinoshita, invece, è ambientata ai giorni nostri e non ci sono eroi samuraici tra i suoi protagonisti, ma piuttosto gente comune. Ciò fece sì che il suo cinema mancasse di quella componente esotica che si prestava ad attrarre non solo il grande pubblico, ma anche parte della critica. Naturalmente nel corso dei decenni successivi la figura di Kinoshita è poi stata ripresa anche all’estero tramite retrospettive, omaggi e pubblicazioni, ma comunque in misura minore rispetto ad altri grandi nomi come Ozu e Mizoguchi. A un quarto di secolo dalla scomparsa, quindi, ci è sembrato che fosse arrivato il momento di tornare al suo cinema non solo per ribadirne i numerosi spunti di interesse ma anche per vedere se c’era qualcosa di nuovo da dire al riguardo.
Alcuni studiosi si sono concentrati sullo stile, evidenziando una serie di fattori che in passato erano stati sottovalutati. Altri hanno invece proposto ricerche di tipo diverso, per esempio ripercorrendo le recensioni di celebri opere su riviste e giornali europei e giapponesi per comprendere quale sia stata la percezione del suo cinema in Giappone e all’estero. Non è mancato chi ha presentato un approccio etnografico, intervistando gli spettatori dell’epoca per rintracciarne il ricordo. Ulteriori interventi hanno analizzato infine le logiche produttive e le dinamiche interne allo staff di Kinoshita, o ancora il rapporto tra alcune sue opere e le fonti letterarie o teatrali. Tutto questo ha contribuito a gettare luce su alcuni aspetti finora inesplorati o sottostimati.
Quale eredità ci lascia il regista? Come rileggerlo oggi?
Kinoshita Keisuke è stato visto per molto tempo, in particolare dai registi della generazione successiva, quella emersa nel corso degli anni Sessanta, come un rappresentante del passato da superare in un’ottica di decisa rottura, e questo credo che ne abbia condizionato in qualche modo la fortuna critica degli ultimi decenni. In realtà fu anche un innovatore, un esploratore del cinema a cui piaceva sperimentare, capace di adottare soluzioni talvolta ardite per il suo tempo e dunque difficile da associare solo al cinema classico o popolare. Se a livello tematico l’insieme delle sue opere risulta sempre piuttosto coerente, bisogna anche sottolineare che ogni suo film è stilisticamente molto diverso dagli altri, rivelando uno spirito eclettico e una continua sete di sperimentazione.
Per fare qualche esempio, La ballata di Narayama offre un approccio teatrale che si ispira direttamente all’estetica e alle convenzioni del kabuki, mentre per contro uno sguardo realista e documentaristico caratterizza Una tragedia giapponese, film del 1953 ma già proiettato negli anni Sessanta per alcune scelte stilistiche. Inusuale è inoltre l’uso pittorico del colore, attraverso particolari viraggi o macchie cromatiche applicate solo in particolari punti sulla pellicola in bianco e nero de Il fiume Fuefuki, o ancora le inquadrature sghembe de Il puro amore di Carmen e l’uso dei mascherini in Lei era come un crisantemo selvatico.
Anche sul versante dei temi, Kinoshita guarda al passato in forma ambivalente: se spesso i suoi film sono ammantati da un senso di nostalgia, altrettanto spesso il passato è visto come qualcosa che condiziona le vite dei protagonisti in negativo. La rigida divisione tra classi sociali, ad esempio, rappresenta un ostacolo insormontabile alle storie di amori impossibili dove la tradizione è un peso drammatico che impedisce la felicità del presente. Tra gli altri temi prediletti che dimostrano come Kinoshita guardasse più al futuro di quanto non sembri, la giovinezza intesa come età in cui è ancora possibile la purezza, ma anche la forza femminile e l’emancipazione delle donne. Altro tema ricorrente è infine la pietà filiale vista non come atto dovuto ma come gesto affettivo e di riconoscenza verso i soli genitori amorevoli (spesso le madri).
Da sottolineare infine anche uno spirito antibellico che pervade il cinema del regista sin da tempi non sospetti, ovvero da prima della democratizzazione. Per esempio ne L’esercito, film teoricamente di propaganda dove però l’angoscia della madre per la partenza al fronte del figlio nell’intenso finale, enfatizzata dalla regia di Kinoshita, risultò inaccettabile per l’ideologia dell’epoca.
Nessun uomo è un’isola: personaggio, spazio, prossemica è il titolo del suo intervento. Quale ruolo può giocare lo spazio?
Nel mio intervento ho scelto di soffermarmi su Kanko no machi - Jubilation Street, un piccolo film girato in pieno periodo bellico che almeno sulla carta (la sceneggiatura non era di Kinoshita) avrebbe dovuto assecondare certi intenti propagandistici. La storia è semplice: gli abitanti di un piccolo quartiere sono costretti a lasciare le proprie abitazioni per ordine del governo. In modo a tratti didattico, essi discutono su vantaggi e criticità: c’è chi prova a convincere gli altri e c’è chi non vuole spostarsi, ma alla fine sottostaranno tutti alle direttive.
Al di là dei dialoghi che assecondano i valori dell’epoca, però, mi è parso che la messinscena di Kinoshita descriva, soprattutto nel modo in cui vengono relazionati i personaggi allo spazio e tra di loro, una situazione amara che contrasta col messaggio espresso a parole. Ne emerge infatti uno spazio vivo, in cui i personaggi si susseguono di continuo nell’inquadratura e la cinepresa si lascia trascinare dall’uno all’altro con un andamento altamente digressivo; uno spazio connotato da una forte dimensione corale che sottolinea la coesione di una piccola comunità d’affetti, costretta drammaticamente a disgregarsi a causa di una volontà esterna, invisibile ma presente, che coincide con la guerra e le politiche del governo; in un modo sottile mi è parso perciò che Kinoshita comunicasse, con un certo coraggio oltre che con soluzioni stilistiche piuttosto raffinate, un significato in contrasto con quello dichiarato dal titolo.
Un consiglio per gli studenti universitari che vogliono approcciarsi al cinema di Kinoshita Keisuke: da quali film partire?
Consiglierei innanzitutto Una tragedia giapponese, un film di rara intensità sulla realtà dell’immediato dopoguerra. Poi 24 occhi, il suo film più famoso in patria, estremamente commovente, perché rende l’idea di quale fosse lo stile di Kinoshita nel melodramma, mentre con Carmen torna a casa, il primo film a colori del cinema giapponese, si può avere un ottimo assaggio di come il regista sapesse destreggiarsi anche nella commedia. Infine senz’altro La ballata di Narayama per capire fin dove il regista poteva spingersi su un versante più sperimentale.