“Musk annuncia: primo chip di Neuralink impiantato su un essere umano”. Cosa significa veramente per il nostro sviluppo scientifico tecnologico? - Bnews “Musk annuncia: primo chip di Neuralink impiantato su un essere umano”. Cosa significa veramente per il nostro sviluppo scientifico tecnologico?

“Musk annuncia: primo chip di Neuralink impiantato su un essere umano”. Cosa significa veramente per il nostro sviluppo scientifico tecnologico?

Neuroscienze

di Alberto Gallace, direttore Mibtec - Università di Milano-Bicocca

È di oggi la notizia che Neuralink, la società di Elon Musk specializzata nello sviluppo di Neuroprotesi, ha impiantato il primo chip nel cervello di un volontario umano. Cosa significa questa notizia e che impatto può avere per le persone e per il loro futuro? Per prima cosa cerchiamo di comprendere che cos’è una neuroprotesi e per quali funzioni viene utilizzata. La neuroprotesi si colloca nel campo delle interfacce uomo-computer, quei sistemi che permettono la nostra comunicazione, in qualità di essere umani, con le macchine (e.g., computer, robot, etc). Una tastiera e uno schermo sono interfacce uomo-macchina, la prima ci permette di immettere informazioni in un computer, il secondo di usufruire di informazioni fornite dallo stesso computer. In entrambi i casi queste interfacce usano il nostro corpo, con i suoi sensi e le sue capacità motorie per stabilire la comunicazione (guardiamo lo schermo con gli occhi e digitiamo sulla tastiera con le dita delle mani). Il nostro cervello controlla queste parti del corpo che a loro volta ci permettono di entrare in contatto con la macchina. Nel caso della neuroprotesi, il nostro corpo viene bypassato, cioè la comunicazione tra il noi e la macchina non sfrutta più il corpo, ma utilizza direttamente l’attività neurale, i segnali che sono generati dal nostro cervello durante il suo funzionamento.

La neuroprotesi non è altro che un mezzo di comunicazione diretta tra il cervello e la macchina. I vantaggi chiaramente sono numerosi, sia come strumento di ingresso di informazione al nostro cervello che come sistema di controllo di periferiche esterne. Pensiamo ad esempio a persone con deficit sensoriali quali i danni retinici e non in grado di vedere. Un sistema artificiale di rilevazione di segnali ottici (visione artificiale) potrebbe essere collegato direttamente alle aree del nostro cervello che si occupano di analizzare i segnali visivi e ripristinare il senso danneggiato. Questi sistemi non sono nuovi e i primi prototipi sono stati ampiamente testati e sperimentati (con vari livelli di successo/insuccesso) nel corso degli ultimi decenni. Un caso di successo è sicuramente quello delle neuroprotesi cocleari che permettono, in specifici casi di danno al sistema acustico, di ripristinare almeno in parte la funzione uditiva. Stesso discorso vale per le protesi che permettono di recuperare funzioni di movimento. In questo caso l’utilizzo di neuroprotesi connesse direttamente con aree del cervello coinvolte nella funzione motoria permette di interfacciarsi con protesi robotiche e ripristinare alcune funzioni motorie perdute a causa di specifiche patologie. In realtà la storia è molto più complicata, perché le neuroprotesi non sono tutte uguali, e questo contribuisce a determinarne la loro complessità: alcune sono più invasive di altre. Ad esempio, si può pensare di controllare un arto artificiale usando un segnale elettrico rilevabile direttamente sulla superficie del cranio (quindi senza nessuna operazione chirurgica) oppure tramite innesto diretto nella corteccia cerebrale del paziente. In entrambi i casi è necessario capire quale tipo di segnale generato dai nostri neuroni si associa con specifici pattern di movimento (cosa non scontata), per poter riuscire a controllare correttamente la protesi. Per questo spesso si utilizzano algoritmi di intelligenza artificiale, che estraggono dalla caotica attività corticale dei pattern di segnale che hanno una correlazione con il movimento che si vuole generare (per semplificare: il segnale x corrisponde al movimento y).

Altro aspetto che rende le neuroprotesi complicate è che queste possono essere usate in maniera unidirezionale o bidirezionale. Ad esempio si potrebbe usare una neuroprotesi unidirezionale per controllare un arto robotico che ne sostituisce uno amputato, ma tale protesi non ci darebbe alcun informazione sul contatto diretto della nostra nuova mano con l’oggetto che vogliamo afferrare. In questo caso sarebbe necessaria una protesi bidirezionale, che non solo prende un segnale prodotto dal cervello e lo usa per controllare un arto robotico, ma utilizza un segnale che arriva da alcuni sensori artificiali impiantati nell’arto robotico e li invia (processati e filtrati) alle aree cerebrali in grado di interpretarli. Essendo l’architettura del cervello altamente specializzata (le aree che si occupano del movimento sono diverse da quelle che si occupano della percezione), si può immaginare quanto complessa possa diventare la realizzazione di questo tipo di sistemi.

I problemi ovviamente non finiscono qui, perché il nostro cervello è fatto di neuroni, che comunicano l’un l’altro attraverso specifici meccanismi elettrochimici, per la realizzazione di neuroprotesi bisogna quindi fare in modo che quegli stessi neuroni ricevano segnali e comunichino con strutture artificiali (elettrodi) che possono avere dimensioni molto diverse da quelle dei neuroni stessi (si pensi che i neuroni, hanno dimensioni generalmente comprese tra 5 e 100micron; nel migliore dei casi un decimo di millimetro). Non da ultimo la comunicazione neuronale avviene anche per rilascio di neurotrasmettitori (quindi segnali di natura chimica), mentre un'interfaccia artificiale in genere sfrutta segnali di natura elettrica (ma anche ottica, come nel promettente campo della optogenetica).

Tornando quindi al caso di Neuralink, possiamo rilevare come lo studio delle neuroprotesi non sia nuovo, quello che appare nuovo qui, sembra essere il tentativo di rendere la comunicazione cervello-macchina ancora più efficiente (anche in termini di canali a disposizione per inviare e ricevere informazioni), con l’obiettivo non soltanto di offrire una soluzione per deficit funzionali in pazienti clinici, ma potenzialmente anche per produrre nuove e più efficienti funzionalità. Ovviamente questo apre interessanti riflessioni sul futuro della nostra specie, specialmente in termini di ampliamento delle capacità di interazione con il mondo (come è sempre stato per le innovazioni tecnologiche; si pensi all’invenzione della radio o di internet stessa che ha permesso di estendere la nostra voce verso qualsiasi punto del globo). Sicuramente il discorso sulle neuroprotesi non è però scevro di aspetti controversi sia sul piano scientifico che su quello etico.

In particolare, uno degli aspetti più controversi delle neuroprotesi è che, specialmente quando queste non vengono usate per la cura di patologie particolari (in cui determinate aree cerebrali sono malfunzionanti o danneggiate), il loro impianto richiede un livello elevato di invasività che potenzialmente non è reversibile. Cosa intendiamo con questo? Se ipotizziamo un impianto nella corteccia cerebrale anche molto piccolo (non sono disponibili dati tecnici specifici, ma nell’articolo scientifico pubblicato nel 2019 da Neuralink si parla di un sistema di 23x18.5x2mm3), bisogna verificare quanto questo impatti, nel caso di rimozione (se eventualmente possibile) sui neuroni esistenti. Infatti la corteccia cerebrale, è lo strato più superficiale (e anche più nuovo sotto il profilo evoluzionistico) del nostro cervello e ha uno spessore di circa 2-4mm. Seppur sottile ospita però un numero elevatissimo di neuroni (circa 100.000 per millimetro cubo) e si occupa delle nostre funzionalità più evolute (e.g., pensiero, attenzione, percezione). La questione quindi che nasce spesso quando si parla di neuroprotesi è proprio quella della reversibilità dell’intervento (i neuroni coinvolti nell’impianto artificiale possono tornare alla loro funzionalità precedente nel caso si voglia rimuovere la protesi stessa?) Avendo ricevuto lo studio di Neuralink, l’approvazione della Food and Drug Administration (l’agenzia americana che si occupa di tutelare la salute delle persone esposte a potenziali rischi durante la sperimentazione di farmaci, in termini di sicurezza ed efficacia) possiamo ipotizzare che le potenziali conseguenze negative della sperimentazione siano state totalmente considerate, controllate ed eventualmente eliminate. Lo studio pare inoltre rivolgersi proprio a pazienti con patologie motorie che potrebbero trarre i maggiori vantaggi da questa tipologia di sistemi. Tanti altri sono sicuramente i problemi con cui la comunità scientifica ha iniziato a confrontarsi riguardo all’uso delle neuroprotesi: effetti collaterali di medio e lungo termine, effettivo miglioramento della qualità della vita dei pazienti, abuso di utilizzo, e sicurezza, solo per citarne alcune.

Sul piano etico ovviamente le discussioni vertono non tanto sull’uso delle neuroprotesi in ambito clinico, ma soprattutto sul loro uso per aumentare le funzionalità umane (‘human augmentation’). Ci si può chiedere infatti quanto lecito sia usarle (anche oggi si discute dell’uso delle protesi in ambito sportivo), se possano essere usate da enti terzi per il controllo delle nostre funzionalità, se cambino in qualche modo la natura stessa dell’essere umano, e così via. Tutti temi di estremo interesse a cui l’opinione pubblica e il legislatore saranno chiamati a dare risposte concrete negli anni a venire. Nessuna tecnologia è buona o cattiva di per sé, dipende sempre dall’uso che di questa viene fatto. Così è sempre stato nell’evoluzione della nostra specie, o come spesso vale la pena dire nella nostra ‘coevoluzione uomo-tecnologia’, e così sarà per le neuroprotesi, Neuralink o meno.