Nel corso degli ultimi decenni, il dibattito globale sul cambiamento climatico ha messo in luce una serie di sfide uniche affrontate dai Small Island Developing States, un gruppo di Paesi e territori che si estendono su un vasto territorio oceanico. Queste nazioni, caratterizzate da dimensioni ridotte e posizione geografica isolata, si trovano al centro di una crisi ambientale sempre più urgente. La crescente pressione derivante dai cambiamenti climatici sta mettendo a dura prova le risorse naturali e le comunità di questi territori, spingendole verso la necessità di adattarsi in modi innovativi e resilienti.
Una delle sfide più evidenti che devono affrontare è rappresentata dalla migrazione ambientale, un fenomeno in cui le persone sono costrette a spostarsi a causa degli effetti dannosi del cambiamento climatico sul loro ambiente naturale. L'aumento del livello del mare, l'erosione costiera, gli eventi meteorologici estremi e la perdita di biodiversità sono solo alcune delle minacce che spingono le persone ad abbandonare le loro terre d'origine.
In risposta a queste sfide, gli Stati stanno sviluppando strategie di adattamento climatico innovative e su misura. Queste strategie includono la protezione delle coste, la gestione sostenibile delle risorse naturali, la diversificazione economica e la promozione della resilienza comunitaria. Tuttavia, le risorse limitate e la mancanza di capacità istituzionale rappresentano sfide significative nel perseguire questi obiettivi.
Abbiamo chiesto a Beatrice Ruggieri, ricercatrice del Dipartimento di Scienze per la formazione “Riccardo Massa”, di raccontarci i suoi ultimi studi in cui esamina le sfide e le opportunità che queste nazioni affrontano mentre cercano di proteggere le loro comunità e i loro ecosistemi in un mondo in rapido cambiamento.
Dottoressa Ruggieri, ci può spiegare in che modo la sua ricerca affronta il tema della migrazione ambientale e dell'adattamento climatico nei piccoli Stati insulari del Pacifico?
Nella mia ricerca sono partita da un interrogativo che mirasse a fare chiarezza sugli effetti locali della crisi climatica globale e sulle strategie politiche per affrontare tali effetti. Prendendo in considerazione la relazione tra cambiamento climatico e mobilità umana, ho voluto approfondire in che modo la migrazione, in particolare le ricollocazioni pianificate interne ai confini di uno stato, potesse essere di supporto alle strategie di adattamento climatico di un Paese. Questo mi ha portato a studiare i processi di spostamento pianificato che stanno prendendo forma alle isole Fiji, nel Pacifico meridionale. Lo Stato insulare delle Fiji, tra i più colpiti dalle conseguenze del cambiamento climatico pur avendo contribuito in minima parte al problema, ha intrapreso un programma di ricollocazioni interne – pubblicando un documento ufficiale nel 2018 denominato Guidelines on Planned Relocations – con l’obiettivo di favorire l’adattamento della popolazione alle nuove condizioni climatiche e migliorarne la qualità di vita. Nella mia ricerca sono andata a indagare due tipi di processi, quelli guidati da figure istituzionali – governo centrale, ong, agenzie internazionali – e quelli pianificati e gestiti dalle comunità in modo tendenzialmente autonomo. In questo modo, accanto alle ricollocazioni più formali, ho provato a dare risonanza a una tipologia di spostamento meno nota, quello autonomo appunto, intendendolo come una dichiarazione di autodeterminazione da parte delle comunità che lo adottano e provando a comprenderne le opportunità ma anche le limitazioni. Il quadro che emerge dalla ricerca è molto più complesso e frammentato di ciò che viene rappresentato a livello istituzionale e mediatico, i cui rappresentanti tendono a semplificare le sfide e le problematiche che le ricollocazioni, ossia spostamenti pianificati e gestiti da attori diversi e relazioni di potere asimmetriche, comportano. Uno degli obiettivi di una ricollocazione, ad esempio, è quello di ridurre le vulnerabilità – fisiche, sociali, economiche – della comunità che si sposta. In alcuni casi, tuttavia, questo non si verifica a causa della mancanza di valutazioni d’impatto ambientale appropriate, di una scarsa considerazione delle prospettive di coloro che si spostano – in particolare donne e giovani – di un’attenzione inadeguata agli aspetti intangibili dello spostamento, quindi aspetti culturali, religiosi, psicologici. Sono ancora molte le zone d’ombra che permangono nell’ambito degli studi sulle mobilità climatiche. Con il mio lavoro ho voluto dare un piccolo contributo al loro avanzamento e ciò è stato possibile soprattutto grazie alle testimonianze di chi, alle Fiji, partecipa in modo diretto e attivo, più o meno formalmente, alla delineazione di percorsi di adattamento essenziali per la vita delle future generazioni.
Nel contesto delle politiche di adattamento climatico, quali sono le principali sfide che questi Stati stanno affrontando e quali opportunità possono emergere?
Per questi stati, il cambiamento climatico è una minaccia esistenziale. Se pensiamo alle Kiribati e a Tuvalu nel Pacifico o alle Maldive nell’Oceano Indiano, l’elevazione media di questi Paesi non supera i 3 metri slm, per cui l’innalzamento del livello del mare rappresenta una minaccia reale. Pertanto, elaborare misure di adattamento è prioritario per i governi dei piccoli Stati insulari. Non è un compito semplice. Al contrario, le sfide, gli ostacoli e le limitazioni sono molteplici e di natura ecologica, tecnologica, economica, sociale ma soprattutto politica. Hanno a che fare con i costi elevati delle misure tecniche e degli interventi tecnologici da effettuare, con la limitatezza delle risorse ecologiche e umane nell’istituire condizioni per cambiamenti piuttosto radicali, con la scarsità di informazioni e competenze su come pianificare e governare tali cambiamenti, con i modi attraverso cui si concepisce il rischio e lo si affronta. Un accesso più agevole alla finanza climatica per l’adattamento, ad esempio, è una delle richieste fondamentali dell’Alliance of Small Island States di cui le Fiji fanno parte.
E poi c’è il discorso dello sviluppo che si intreccia inevitabilmente con quello del cambiamento climatico, considerato come un ulteriore ostacolo. Anche se il quadro generale sta cambiando, ancora molte politiche insulari intendono sviluppo e cambiamento climatico come settori in conflitto, portando a risultati disastrosi dal punto di vista del miglioramento della qualità di vita di chi abita le isole. Alle Maldive, progetti di land reclamation – letteralmente processi di sottrazione di terra al mare tramite cui si espande la superficie limitata delle isole e si crea nuovo spazio da mettere a valore (abitazioni, porti e aeroporti, strutture turistiche…) – sono presentati come misura di sviluppo socio-economico e adattamento nonostante stiano causando danni irreversibili agli stessi ecosistemi da cui dipende la popolazione. Con questo non voglio dire che il futuro dei piccoli Stati insulari sia già scritto, come molti discorsi istituzionali e mediatici affermano. In ogni crisi vi sono opportunità da esplorare ed è così anche nel caso delle piccole isole, le cui popolazioni potrebbero beneficiare delle strategie di adattamento in termini occupazionali, di benessere sociale ed ambientale. Tutto questo, però, richiede organizzazione e cooperazione per una migliore redistribuzione delle risorse necessarie e un’integrazione di conoscenze plurali e competenze a lungo trascurate.
Ha menzionato l'uso di metodologie indigene dell'Oceania nella sua ricerca. Come hanno influenzato il suo approccio alla ricerca e alla riflessione sul tema?
Riflettere sulla metodologia e, quindi, sui metodi da impiegare nella ricerca è un passaggio cruciale e delicato. Da ricercatrice “bianca”, europea, privilegiata questo si è rivelato particolarmente vero in Oceania, dove secoli di colonialismo hanno estratto non solo materie prime ma anche conoscenze, rappresentazioni, pratiche e manufatti. Uno dei primi riferimenti che ho impiegato per districarmi in merito a questo tema è il volume Decolonizing methodologies: Research and Indigenous People di Linda Tuhiwai Smith, studiosa Maori, la quale sostiene che il termine stesso “ricerca” sia uno dei più sporchi – lei usa la parola “dirtiest” – nel vocabolario del mondo indigeno (del Pacifico). Partendo dal riconoscimento di questo fatto e della mia posizione all’interno di un sistema accademico strutturalmente coloniale, ho provato a riflettere criticamente su quello che Tuhiwai Smith sostiene essere fondamentale per un’agenda di ricerca alternativa, ossia comprendere in modo critico gli assunti, le motivazioni e i valori che informano le pratiche di ricerca. Da qui trovare e sperimentare modi diversi di fare ricerca con le comunità indigene che significa anche lavorare attraverso un processo continuo che parta dal sé, come afferma la geografa e attivista Rachele Borghi, atto a individuare e al tempo stesso smantellare le radici della colonialità che informano le pratiche accademiche occidentali, le cui pretese di scientificità, oggettività, neutralità faticano a essere decostruite e superate tanto negli approcci teorici quanto in quelli empirici. Questo fa sì che le visioni, le prospettive, le voci delle comunità indigene, in Oceania come altrove, continuino a essere poste in secondo piano. Nel mio lavoro ho provato a far sì che tali prospettive, voci e visioni emergessero con l’obiettivo di elaborare raccomandazioni per strategie di adattamento più in linea con i valori, gli obiettivi e le necessità di chi, in primo luogo, lo sperimenta. Fondamentale è stato l’impiego di modalità locali di conversazione e condivisione, i dialoghi Talanoa, che hanno da un lato ridotto la distanza tipica tra chi fa ricerca e chi vi partecipa e dall’altro offerto lo strumento ideale per affrontare in modo più appropriato da un punto di vista culturale un tema complesso e delicato come quello delle mobilità climatiche.
Considerando il crescente impatto del cambiamento climatico sulla vita sul nostro pianeta, quali sono le sue speranze per il futuro in termini di adattamento climatico più equo e sostenibile?
Purtroppo c’è da dire che anche l’adattamento in molti casi non sarà sufficiente né addirittura possibile. Vi saranno scenari in cui perdite di diverso tipo, tangibili e intangibili, saranno inevitabili. Da qui, la battaglia che vede i piccoli Stati insulari in prima linea, per il riconoscimento di un meccanismo che li tuteli sotto il profilo dei danni e delle perdite. Al tempo stesso, però, ritengo che parlare di adattamento dia spazio alla possibilità di immaginare altri percorsi, altre agende, altre relazioni. Per farlo, è importante secondo me riconoscere il fatto che non vi sia un concetto unico, neutro e apolitico di adattamento. Poiché l’adattamento dipende dal contesto in cui si materializza, da chi lo pianifica e lo implementa, da chi gli resiste e lo rielabora, sarebbe meglio parlare di adattamenti. Il plurale restituisce un’idea meno rigida e normativa e, soprattutto, sfida l’accezione universalizzante che spesso si ritrova nelle policies ufficiali. Nonostante sempre più casi dimostrino l’inconsistenza di una visione di adattamento come insieme di interventi tecnici calati dall’alto, questa continua a rimanere l’impostazione dominante. Per andare oltre cambiamenti incrementali, occorre innanzitutto considerare l’adattamento come un insieme di discorsi, prospettive, valori, conoscenze e pratiche proprie di una moltitudine di attori che non sempre trovano posto nelle agende ufficiali, limitandone gli orizzonti d’intervento e le capacità di generare cambiamenti più giusti dal punto di vista distributivo, procedurale, rappresentativo… Per esempio, trovo molto interessante studiare in che modo le politiche climatiche e di sviluppo nazionali – elaborate a partire da documenti, linee guida e protocolli internazionali – incidano sulle geografie socio-ambientali locali, modificando tessuti socio-economici ed ecosistemi preziosi nel quadro della mitigazione e dell’adattamento climatico. Al tempo stesso è molto rilevante dare risonanza ai casi e ai movimenti di resistenza collettiva ai progetti di adattamento top-down basati su modelli di sviluppo insostenibili. Questo è, a grandi linee, l’oggetto di studio al centro del mio attuale progetto BNFC – Biodiversity National Future Center e MaRHE Center, sulle misure di conservazione della biodiversità alle Maldive. Da questo punto di vista, penso che i piccoli stati insulari abbiano molto da insegnare alla ricerca sugli adattamenti climatici affinché questa possa effettivamente contribuire a delineare percorsi di trasformazione che creino nuove opportunità per tutte le forme di vita.
@credit photo Beatrice Ruggieri