Da tempo la ricerca scientifica sta cercando di far luce sulla correlazione tra inquinamento e propagazione del virus SARS; esistono infatti delle analogie tra lo sviluppo dell’epidemia a Wuhan, nella pianura Padana e in altre aree ad alta urbanizzazione. Diverse sono le ipotesi a confronto, ma due ricercatori del Centro di ricerca Polaris, Maurizio Gualtieri e Sara Marchetti, hanno identificato quello che potrebbe rivelarsi un aspetto decisivo.
Che ruolo gioca il particolato nella diffusione del virus SARS?
Diversamente da quello che si credeva, il particolato non favorisce la diffusione del virus dal punto di vista del suo trasporto, favorisce invece l’infettabilità delle persone: una persona esposta a particolato atmosferico potrebbe avere un numero maggiore di recettori, usati dal virus nel processo di infezione, sulla membrana delle sue cellule polmonari e quindi un rischio maggiore di infezione. Il particolato rappresenta un fattore di rischio aggiuntivo sia rispetto alla possibilità di essere infettati sia di sviluppare una riposta più marcata all’infezione.
Quindi il particolato ha un’azione più significativa nella predisposizione delle persone che nel veicolare il virus in quanto tale?
Esatto, il fatto che il particolato trasportasse il virus era stata una delle prime ipotesi, ma la nostra ricerca va oltre, inoltre una particella virale legata al particolato tende ad essere “sequestrata” e più difficilmente rilasciata nei polmoni.
Noi guardiamo alla correlazione tra particolato atmosferico e infezione da SARS-CoV-2 sotto una nuova luce grazie ad un meccanismo di azione fisiologico, indagando la biologia del nostro polmone e i suoi meccanismi tossicologici. I risultati che abbiamo raggiunto potrebbero spiegare l’elevato numero di casi che sono stati riscontrati nella Pianura Padana, che proprio poco prima della pandemia registrava livelli di inquinamento particolarmente elevati, paragonabili a quelli riscontrati a Wuhan. Queste similitudini potrebbero spiegare il maggior numero di casi: se i polmoni sono già infiammati è più facile infettarsi con un virus che sfrutta, e aggrava, gli effetti del processo infiammatorio.
Sulla base della vostra ricerca e secondo la vostra opinione, la variabile inquinamento può determinare una diversa valutazione dell'efficacia dei sistemi sanitari regionali nel fronteggiare il virus?
La conclusione a cui giungiamo nel nostro articolo auspica un dialogo più stretto tra piani pandemici e piani di qualità dell’aria. Le Regioni hanno messo in atto delle azioni sulla base delle migliori conoscenze ed evidenze che erano disponibili in quel momento. Con il nostro lavoro vogliamo sottolineare che se il particolato è un fattore di rischio aggiuntivo per la popolazione, allora un piano pandemico dovrebbe prevedere azioni di prevenzione più forti laddove vi è più inquinamento.
Secondo voi l’analisi che avete condotto potrebbe trovare applicazioni anche nello studio di altre epidemie, di altri virus, e se sì, di quali?
Sicuramente potrebbe essere utile nello studio delle influenze stagionali o degli altri virus che si diffondono per via respiratoria. La presenza di particolato atmosferico potrebbe incrementare il numero dei recettori presenti sulle cellule oppure debilitare il sistema immunitario, questo vale anche per i batteri: questa infatti è una delle possibili linee di ricerca che possono scaturire dal nostro studio.
In questo momento l’OMS sta lanciando un allarme sull’Aviaria: anche questo virus è da comprendere meglio e dal nostro punto di vista è utile focalizzare le sue interazioni con il particolato e come questo può favorire l’infezione a livello polmonare.
In parte avete già risposto a questa domanda, ma secondo voi qual è l’elemento di originalità della vostra ricerca rispetto alla letteratura scientifica che ha studiato la correlazione tra inquinamento e virus?
L’elemento innovativo è l’aver individuato il meccanismo biologico attraverso il quale si determina una maggiore infettività, è uno studio che non era mai stato fatto prima. Esistevano diverse ipotesi sul ruolo chiave giocato dal recettore di membrana ACE2, però nessuno lo aveva ancora accertato a livello pratico e associato all’inquinamento atmosferico. Inoltre stiamo cercando di capire se si può distinguere un effetto sulla base della sorgente di emissione: alcuni tipi di inquinamento sono peggiori di altri per la salute umana. Per esempio alcune risposte in termini di stress ossidativo a livello polmonare sono indotte dal particolato prodotto da combustione, come quella veicolare, più che dalla massa del particolato in generale. Quindi anche giornate con tassi relativamente bassi in termini di massa di particolato atmosferico potrebbero avere effetti sulla salute relativamente maggiori di quanto possano averne giornate con tassi più alti ma con diversa composizione e origine. L’OMS ha dato come linea guida consigliata 5 microgrammi/m3, misura che in Pianura Padana difficilmente si potrà raggiungere nel breve periodo, ma studi epidemiologici hanno dimostrato che anche al di sotto di quella soglia c’è un aumento dei rischi per la salute umana. Quindi è urgente capire se è tutta la massa di particolato che fa male o solo alcune sue componenti. Se riuscissimo a capire questo potremmo ipotizzare dei piani di intervento più mirati ed efficaci.
Mi sembra che abbiate uno sguardo al problema molto ampio e interdisciplinare
Il Centro Polaris dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca, di cui facciamo parte, ormai da vent’anni studia il particolato atmosferico e i suoi effetti tossicologici in tutte le sue declinazioni. Come gruppo di tossicologia ambientale siamo focalizzati in primo luogo sui polmoni, ma stiamo cercando di collaborare anche con chi si concentra su altri organi come il cervello o altri tessuti. Studiare il particolato nelle sue varie declinazioni tossicologiche è un obiettivo molto ambizioso, ma di chiara rilevanza scientifica e sociale, se pensiamo al numero di persone che vivono in ambito urbano. È una linea di ricerca molto promettente: siamo coinvolti nel sistema MUSA con alcuni progetti, abbiamo contatti con Regione Lombardia e con altri centri di ricerca nazionali (CNR, ENEA) per sviluppare una collaborazione primariamente sul piano scientifico ed eventualmente per supportare con i nostri dati ragionamenti inerenti alle politiche di contrasto.
Quale direzione dovrebbero prendere secondo voi le ricerche per meglio indagare il fenomeno che avete individuato?
Abbiamo dimostrato un meccanismo di azione a livello cellulare. Per approfondire le ricerche nella direzione del Covid potrebbe essere interessante lavorare con dei clinici che forniscano ulteriore evidenza del fenomeno. Inoltre si potrebbe studiare il tema utilizzando delle metodologie più avanzate, ad esempio organoidi o sistemi lung-on-a-chip: sono tecniche che ci permetterebbero di guardare all’impatto del particolato su tutti gli organi del nostro corpo. Stiamo già analizzando a livello genico le interazioni che abbiamo studiato e abbiamo in preparazione un nuovo articolo per gettare luce su questo aspetto, ma in prospettiva sarà interessante capire tutti gli effetti del fenomeno: dallo stress ossidativo, alle risposte infiammatorie fino al danno al DNA.
I nuovi casi di Covid sono in aumento e quindi il problema dell’attenzione specifica che bisogna fornire alle zone particolarmente esposte al particolato è di grande attualità, riteniamo che alla luce delle nostre ricerche e delle evidenze epidemiologiche si debbano sviluppare delle sinergie tra piani pandemici e piani per la qualità dell’aria.